mercoledì 14 febbraio 2024
Stili di vita e mappe di appartenenza: se l'identità è costruita per contrasto
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Le strutture del nostro cervello, i suoi meccanismi e le sue procedure si modificano attraverso l’interazione con l’ambiente: il cervello è una macchina da elaborazione dati, ma anche una spugna, che cambia nel tempo, assorbendo informazioni dall’esterno. L’istruzione, cioè l’apprendimento di informazioni, l’allenamento e gli stimoli esterni in generale, compresi i traumi, possono interagire con la plasticità del cervello e con le sue strutture innate, trasformandolo e permettendogli di fare cose imprevedibili. In estrema sintesi, stiamo dicendo che il cervello è un organo culturale, in cui la componente biologica e quella simbolica interagiscono, modificando il dentro e il fuori di ciascuno di noi, i pensieri e i comportamenti, la psicologia e le relazioni.

Abbiamo ampiamente discusso su queste colonne quanto la nostra identità sia conseguenza di quella interazione continua fra interno ed esterno, tentando di sganciarci così da una delle convinzioni più diffuse e più ingenue, che vede l’identità come autonomia, unicità, immutabilità, indipendenza, autodeterminazione, reimmettendola invece nel contesto sociale e comunitario di cui si nutre. La conseguenza è quella di concepire la comunità come un elemento essenziale (sebbene non unico) per l’esistenza stessa dell’individualità e dell’identità e non come un impedimento al pieno sviluppo libero e indipendente di ciascuno o come un riferimento a cui tocca dare conto, per dovere etico o per qualche interesse specifico e momentaneo. Forse è solo questione di intendersi sui termini: diciamo identità ma vogliamo dire libertà di “essere noi stessi”? Benissimo. C’è da discutere allora su che cosa significhi essere noi stessi. Cioè se il noi, ancora una volta, sia frutto delle interazioni che ci influenzano, del destino immutabile segnato dalle nostre radici o delle decisioni autonome e libere che prendiamo. Si badi bene: non è una discussione filosofica fine a sé stessa, poiché da queste concezioni possono discendere modelli po-litici, economici e sociali opposti, idee sulla convivenza e sui diritti del tutto differenti. Forse, invece, intendiamo con identità il nostro stile di vita? Le nostre tradizioni, abitudini, credenze, i nostri valori e così via?

Interessante allora riflettere sul concetto di stile, che è al tempo stesso qualcosa di personale e inconfondibile – lo stile di Miles Davis lo riconosci subito, dopo poche note, come lo stile di Armani, già a distanza – ma è anche ciò che unifica e accomuna: lo stile dorico, il gotico, l’impressionismo, il rock e così via. Dunque unico e comune. Ed è questa la potenza significativa dello stile, cioè essere un concetto che da una comunanza di elementi costruisce una comunità e allo stesso tempo differenzia gli individui all’interno di essa, proprio grazie a essa. Proseguiamo. Quante volte abbiamo chiesto, o ci hanno chiesto, così per rompere il ghiaccio in una conversazione: che lavoro fai? dove abiti? a che squadra tieni? ma tu per caso sei figlio di Giorgio, quello che faceva l’assicuratore? Oppure: conosci tal dei tali che abita nella tua città? Ebbene, ciò che avviene in quella conversazione così comune è molto chiaro: stiamo costruendo l’identità del nostro interlocutore attraverso i suoi legami di appartenenza. Raramente chiediamo: quali sono i tuoi valori di riferimento? In che cosa credi? Quali sono le persone o gli accadimenti che ti hanno cambiato la vita?

Preferiamo costruire una mappa geografica delle appartenenze e in base a quella disegniamo, per contrasto dallo sfondo, l’identità delle persone. È solo un pezzo di quelle persone, lo sappiamo, eppure è quello che per primo indaghiamo, solitamente, poiché per tutti è il più facile da indossare, da esporre e da identificare, appunto. Insomma, il più delle volte parliamo di una identità prêtà- porter. E così, la parola viene sdrucita a causa del troppo uso, dello sfregamento continuo con altre parole e concetti, spesso viene maltrattata e tirata come un fendente. Oppure usata, con la nostra inconsapevole approvazione, come strumento di business. È il caso della cosiddetta brand identity, perno di qualsiasi strategia di marketing e comunicazione, cioè di vendita. L’identità di un marchio si fonda su una serie di elementi anche di stampo culturale, dipendenti da una catena di significati che vengono condivisi dai consumatori; attribuiamo a un certo prodotto alcuni valori, lo associamo ad alcuni concetti che apprezziamo.

Questa catena di significati è la cultura. All’interno di questa cultura, che qualcuno ha chiamato semiosfera, ci riconosciamo e sviluppiamo sentimenti di appartenenza, adesione, cioè sviluppiamo relazioni. E le relazioni, lo abbiamo capito, sono costitutive della nostra identità, per via di quella connessione fra elaborazioni cerebrali ed eventi esterni. Ecco che il brand ci è di colpo familiare, entra in noi, la sua identità e la nostra si incontrano, si intersecano. Da qualche anno si parla addirittura di brand love. Diceva Georges Bataille che alla base della vita umana esiste un «principio di insufficienza»; sta a noi riempirlo con ciò che crediamo possa colmare quel vuoto.

4. Fine

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