giovedì 13 aprile 2023
Quella del fashion è una delle industrie che divorano più risorse. Si moltiplicano anche le denunce verso gli allevamenti
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Indossereste un collo di pelliccia di volpe se sapeste che questo animale è stato ucciso con il gas o con scariche elettriche? E un pullover di lana confezionato con il morbido pelo strappato a mano dal coniglietto d’angora? Acquistereste un paio di scarpe da calcio realizzate con la pelle dei canguri massacrati a bastonate o una borsetta di rettile scuoiato vivo? Probabilmente no, se il vostro concetto di moda non si “limita” al luxury e a ciò che stagione dopo stagione «fa tendenza» ma vola alto, incrociando e abbracciando l’etica, la tutela della biodiversità, la sostenibilità in tutti i suoi aspetti.

Non ci pensiamo mai eppure quella del fashion è una delle industrie globali più impattanti sull’ambiente naturale e sul fragilissimo equilibrio in cui vivono vegetali e animali: secondo alcuni rapporti delle Nazioni Unite e dell’Agenzia del Commercio degli Stati Uniti è, infatti, tra quelle che più emettono CO2 nell’atmosfera, che divorano maggiori quantitativi di suolo e che consumano e contaminano l’acqua con prodotti chimici e microplastiche. Annoverata tra i settori che persistono nella violazione dei diritti dei lavoratori – come purtroppo conferma anche l’ultima iniziativa del network internazionale Clean Clothes – la moda detiene addirittura un’altra maglia nera: quella per lo sfruttamento degli animali allo scopo di produrre abiti, cappotti, scarpe e accessori.

Le denunce di Peta, l’organizzazione non profit statunitense che negli anni ha ideato dirompenti campagne contro l’utilizzo animale nella sperimentazione, nella moda, nel cibo e nell’intrattenimento, parlano di diversi milioni di animali ammazzati ogni anno nel mondo dopo indicibili sofferenze (persino negli allevamenti reclamizzati come «responsabili») per il commercio della loro pelle, per produrre lana, piumini, cashmere, mohair e pellicce. Animali sfortunati che trascorrono una vita intera nelle gabbie, imprigionati in strutture progettate unicamente per massimizzare i profitti.

La stragrande maggioranza delle pellicce è ricavata da visoni, cani-procione (murmasky), volpi, cincillà e conigli che hanno subìto questa crudele sorte. Sono loro le vere fashion victims, le “vittime della moda”, secondo la charity inglese World Animal Protection, che ha scelto di declinare in questa chiave il fortunato termine coniato negli anni Ottanta da Oscar de la Renta per indicare gli ossessivi seguaci dello stile. In un report pubblicato nel 2021, la ong si sofferma soprattutto sui penosi trattamenti riservati agli animali selvatici e, più in particolare, a quelli esotici per ricavarne pellame pregiato. I coccodrilli di acqua salata australiani, per esempio, vengono catturati ogni anno a migliaia, confinati in gabbie pavimentate in cemento e infine uccisi per confezionare cinture, portafogli, borse e altri prodotti griffatissimi che le boutiques di tutto il mondo vendono a prezzi da capogiro. Considerati icone di sfarzo per i super ricchi, questi accessori vengono persino battuti all’asta al pari delle opere d’arte; tra il 2016 e il 2022 Christie’s ha venduto una serie di borse Hermes Himalaya in pelle di coccodrillo bianco del Nilo con oro bianco e diamanti per cifre che in un caso hanno superato i 500 mila dollari (pari a oltre 450mila sterline inglesi: più di quanto è stato battuto l’anno scorso, sempre da Christie’s, il dipinto “Notre Dame” di Francis Picabia).

Quella degli animali, sia adulti che cuccioli, sfruttati per la moda, è una realtà che interessa molti Paesi del mondo, compreso il nostro e la LAV - Lega Anti Vivisezione insieme con l’associazione Essere animali prova a spiegarla fornendo qualche numero. Tre milioni sono gli agnelli e le pecore che muoiono ogni anno per produrre la lana; 50 mila i bachi da seta distrutti per ricavare 20 chili di seta; diverse decine di milioni tra bovini, equini, suini, capre, canguri e animali esotici sfruttati, mutilati e uccisi per farne prodotti di pelletteria. E ancora, cinque sono gli allevamenti di visoni in Italia, concentrati tra Lombardia, Emilia Romagna e Abruzzo (erano otto fino al 2020 e ben 125 trent’anni fa), tutti chiusi dal 1° gennaio dell’anno scorso per effetto dei commi 980-84 della legge di Bilancio 2022 che hanno introdotto l’obbligo di dismissione delle strutture e il divieto di allevare animali da pelliccia. Un provvedimento importante, che se da un lato ha fatto esultare gli animalisti ma non solo, dall’altro ha fatto infuriare l’AIP, l’Associazione Italiana Pellicceria, che ha parlato di «fine del made in Italy e di un intero sistema produttivo».

Degli oltre 30mila visoni che fino al 2020 vivevano ammassati in gabbie di 35 x 70 x 45 centimetri, oggi, ad allevamenti chiusi, ne sono rimasti 3.600: gli altri sono stati uccisi con il gas a seguito dei focolai di Sars-Cov-2 notificati in alcune strutture durante la pandemia. I visoni ancora presenti nei cinque allevamenti vivono, intanto, sospesi. In attesa del decreto interministeriale che gli allevatori e gli attivisti stanno aspettando da 14 mesi (i primi per ottenere gli indennizzi e la possibilità di assicurarsi fondi del Pnrr per lo sviluppo agri-fotovoltaico, i secondi per conoscere i dettagli della norma che prevede la cessione dei visoni a strutture autorizzate, preferibilmente gestite dalle associazioni animaliste stesse), la sorte che attende questi animali rimane, per il momento, sconosciuta.

«I visoni si trovano, in pratica, in un limbo: non possono essere uccisi per fare pellicce e, in assenza di conclamata infezione da coronavirus, neanche per esigenze di salute pubblica», spiega Simone Montuschi, portavoce di Essere Animali, l’associazione nata a Bologna che nel 2013 ha condotto una scioccante inchiesta undercover negli allevamenti italiani di visoni. «Questa investigazione, intitolata “Morire per una pelliccia”, ci ha permesso di documentare, grazie ad un nostro attivista infiltrato e a telecamere nascoste, l’intero ciclo vitale di tali mammiferi, dalla nascita alla morte, attraverso una vita di reclusione e sofferenza. Per diverse notti e diversi giorni, nell’arco di un anno e mezzo, abbiamo osservato questi animali dalla natura libera e solitaria costretti ad un’esistenza in batteria, in qualche caso persino insieme a cadaveri, spesso con gravi ferite non curate; abbiamo registrato, inoltre, il manifestarsi di comportamenti stereotipati, autolesionistici e persino a forme di cannibalismo. Oltre a questa inchiesta, che abbiamo ripetuto qualche anno dopo, nel 2013 abbiamo anche lanciato una campagna di raccolta firme e di mobilitazioni che ha portato a fermare la realizzazione di un nuovo allevamento di 40 mila visoni in Emilia Romagna. Anche i risultati di questa nostra attività hanno convinto il governo a chiudere le cinque strutture ancora attive in Italia e a vietare per sempre la produzione di pellicce, mettendoci finalmente alla pari con gli altri tredici Paesi europei dove gli allevamenti di questo tipo sono fuorilegge», continua Montuschi.

Ciononostante, il Vecchio continente – Italia compresa – rimane uno dei più importanti produttori al mondo di pellicce e uno dei maggiori importatori di prodotti di pellicceria. Secondo Humane Society Europa, nel 2019 sarebbero state esportate 8.112 tonnellate di pelli di visoni e volpi e importate 854 tonnellate: è per questa ragione che un’ottantina di associazioni europee per i diritti degli animali (tra cui Essere Animali, LAV, Animal Law Italia e Humane Society Italia) ha di recente portato avanti “Fur Free Europe”, un’iniziativa dei cittadini europei che nell’arco di dieci mesi ha raccolto più di 1 milione e 700mila firme in 23 Stati membri. Lo scopo: chiedere alla Commissione Europea di vietare ovunque l’allevamento di animali da pelliccia e l’importazione e il commercio di fur products.

«Come spesso accade, la politica arriva in ritardo rispetto ai cambiamenti sociali e industriali in atto», riflette Simone Pavesi, responsabile del progetto LAV “Animal Free”, nato nel 2015 con lo specifico obiettivo di diffondere nella società la cultura di una moda che si prende cura del pianeta e delle sue specie viventi, partendo proprio dalle aziende. «Dai primissimi anni Duemila le maggiori maisons hanno scelto di essere fur-free, senza pellicce: hanno scelto cioè di rispettare la vita degli animali e di ridurre il consumo d’acqua e l’inquinamento dell’ambiente». La produzione di pellicce non rappresenta solo una barbarie nei confronti degli animali sacrificati (ne servono fino a 24 per una pelliccia di volpe, fino a 60 per una di visone e fino a 200 per una di ermellino e di cincillà, ndr), ma anche una pratica nociva nei confronti del benessere degli individui e della natura. Lo dicono i numeri: un chilogrammo di pelliccia è in grado di produrre emissioni di CO2 pari a 130-140 chili, e tossici, quando non cancerogeni, sono anche gli effetti delle sostanze con cui viene trattata. «A proporre nelle proprie collezioni capi in pelliccia animale sono rimasti pochi marchi del lusso: penso a Louis Vuitton, Fendi, Hermes, Dior, Max Mara, e qualche altro. Viceversa, sono parecchi quelli virtuosi che hanno preso le distanze anche dalla lana d’angora, dal mohair, dal cashmere e dalle piume – le oche e le anatre vengono spennate a vivo – acquisendo ulteriore valore aggiunto in termini di sostenibilità».

Con “Animal Free” la LAV sta aiutando le aziende ad abolire gradualmente i materiali di derivazione animale dalle loro collezioni e a sostituirli con tessuti cruelty free. «Attribuiamo un rating etico in base al materiale che scelgono di eliminare: la pelliccia animale (V), le piume (VV), la seta e la pelle (VVV), la lana (VVV+). In pratica, meno materiali animali il brand utilizzerà, maggiore sarà il suo rating e migliore sarà, ovviamente, la sua reputazione», spiega Pavesi.

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