
«Se non possiamo arrestare il consumismo, possiamo modificarne il corso». È su questa convinzione che si fonda Slow Fiber: una rete di aziende del tessile italiano che dimostra «non solo che si può produrre diversamente anche su scala industriale, ma che già si fa. E si fa in Italia». A raccontare questa realtà è Dario Casalini, un cinquantenne imprenditore della moda, torinese, che nel 2013 abbandona la carriera accademica per dedicarsi all’impresa di famiglia. E si imbatte per primo contro lo scetticismo dei suoi amici che faticano a capire il “giusto valore” – e quindi il “prezzo” ritenuto troppo alto – dei suoi prodotti, pensati e fabbricati in modo sostenibile. Casalini si avvicina dunque a Slow Food e ne sposa i principi, con una intuizione innovativa seppur fondata sulla “conservazione”. Porta nel tessile ciò che prima di lui Carlo Petrini ha applicato nell’agroalimentare: il mantra che «la bellezza di un capo che indossiamo, al pari di un cibo che mangiamo, non è un mero concetto estetico, ma un insieme di valori che portano alla felicità e che richiedono il rispetto del diritto altrui e la salvaguardia dell’ambiente e della salute». In poche parole un prodotto è da considerarsi “bello” se allo stesso tempo è sano e buono per chi lo indossa, giusto per chi lo produce, pulito e durevole per il benessere del pianeta. Nel 2021 scrive un libro – “Vestire buono, pulito e giusto” – che diventa il manifesto attorno al quale ruota una comunità di aziende che alla denuncia affianca proposte e soluzioni.

La filiera
Italiane ma a vocazione internazionale, le trenta realtà di Slow Fiber vantano una storia importante in tutta la filiera produttiva della moda. Solo quattro hanno un prodotto finito che arriva sul mercato. E se questo da un lato è un punto di forza – perché permette di garantire la migliore trasparenza in tutto il processo – dall’altro limita l’offerta in un settore dove abbondano vestiti a basso costo (e bassa qualità) che sono sempre alla moda. L’adesione alla mission e il rispetto dei suoi capisaldi del resto sono la conditio sine qua non per far parte della rete. Dove si trovano, ad esempio, solo imprese che hanno sede legale e operativa in Italia e che lavorano con almeno il 70% di fornitori di prossimità. Che non hanno dato in subappalto il 30% della produzione negli ultimi tre anni e che sono fortemente radicate sul territorio. « L’obiettivo è quello di valorizzare la filiera locale e renderla attrattiva anche per i giovani a cui sono dirette varie campagne di sensibilizzazione», dice Casalini.
Pulito e durevole
Tutte investono l’1% del fatturato annuo in sostenibilità, si alimentano quasi interamente a energia rinnovabile, recuperano le acque reflue tramite sofisticati sistemi di depurazione e, per ridurre gli sprechi, riciclano interamente gli scarti di taglio. Così come progettano e realizzano prodotti facilmente riparabili e riutilizzabili per allungarne il ciclo vita. Sono i numeri della moda a non dare alternative. Uno su tutti: si stima che degli oltre 150 miliardi di pezzi di abbigliamento e accessori realizzati ogni anno, quasi la metà rimane invenduta. Se questa sovrapproduzione non dovesse arrestarsi – secondo uno studio della Ellen MacArthur Foundation – l’industria del tessile arriverebbe al 2050 a consumare 300 milioni di tonnellate di petrolio, a essere responsabile del 26% della CO2 prodotta nel mondo e a rilasciare negli oceani oltre 20 milioni di tonnellate di microplastiche.
Giusto e sano
C’è poi un altro dato del comparto che fa trasalire anche se resta ancora in penombra. Ed è quello sociale: oggi la moda impiega un lavoratore su sei e di questi meno del 3% percepisce un salario dignitoso; molti – soprattutto nei Paesi più poveri – lavorano in condizioni ambientali pericolose. «Un prodotto non è ‘bello’ se comporta la perdita dei diritti di alcuni o nuoce alla salute anche solo di un essere umano. Così come non mangiamo un cibo che fa male, non dovremmo indossare un capo potenzialmente tossico », aggiunge Casalini. Che precisa come nelle aziende Slow Fiber ci siano direttive precise sui contratti, sul turn over, sulla parità di genere, sul gap retributivo. E sia richiesta l’adesione quantomeno al cosiddetto “Reach”: il regolamento europeo sull’uso di sostanze chimiche nei processi di lavorazione tessili.
I Key performance indicators
Affinché tutto ciò sia possibile, infine, questi imprenditori virtuosi alle certificazioni già esistenti affiancano propri Kpi che vengono aggiornati e raffinati puntualmente e che misurano la loro conformità alla mission. Il tentativo «è quello di monitorare anche valori non monetizzabili come la felicità, la natura, il vivente che sfuggono ai controlli più comuni». Quello di Slow Fiber viene giudicato da molti ancora un tentativo un po’ naif. E di certo si deve andare molto oltre – verso numeri più grandi e consapevolezze più radicate – per educare consumatori e produttori a modelli più sostenibili a costi più alti. A questa giovane oasi va intanto il merito di aver cominciato.