lunedì 27 settembre 2021
Il modello della direttrice della London School of Economics prevede investimenti precoci in istruzione e formazione con sussidi mirati
Minouche Shafik direttrice della LSE

Minouche Shafik direttrice della LSE

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Un appello contro l’individualismo e per il rilancio della società. Un manifesto che non parla di "redistribuzione", ovvero del fatto di togliere ai più ricchi per dare ai più poveri, ma che si basa sulla "pre-redistribuzione", investimenti nei primi anni di vita, nell’istruzione e nella formazione. Secondo il modello di Minouche Shafik, economista di origine egiziana, oggi direttrice della London School of Economics e già vicepresidente della Banca d’Inghilterra e della Banca Mondiale e vicedirettrice del Fmi, «se è necessario ridistribuire il reddito alla fine significa che la strategia della tua economia ha fallito».Il suo volume, intitolato "Quello che ci unisce. Un nuovo contratto per il XXI secolo", appena pubblicato da Mondadori, ripensa il rapporto tra individuo e società in un modo efficace, che investa in coloro che sono ai margini e non stanno realizzando tutte le loro potenzialità, oltre che nelle donne e nei bambini. «Il mio interesse per i contratti sociali è nato dal desiderio di comprendere le cause che stanno alla base della rabbia che si è espressa di recente nella polarizzazione della politica e nelle tensioni intergenerazionali sul cambiamento climatico», spiega l’autrice. Un malcontento diffuso che fa sì che quattro persone su cinque in Cina, Europa, India e Stati Uniti, ritengano che il sistema non funzioni per loro e che, nella maggior parte delle economie avanzate, i genitori temano che i loro figli vivranno in condizioni peggiori rispetto a loro. La pandemia non ha fatto altro che alimentare la sfiducia, colpendo i più vulnerabili.La famosa economista, che la Regina Elisabetta ha reso baronessa, facendola entrare a far parte della "Camera dei Lord", spiega come siano i più fragile a pagare il prezzo più alto: «La mia proposta, politicamente molto accettabile e rispettosa della dignità degli individui, riprende molti dei temi affrontati da papa Francesco nella sua enciclica Fratelli tutti. Come il Santo Padre sono convinta che la pandemia ci abbia dimostrato quanto siamo dipendenti gli uni dagli altri e come possiamo trasformare questa interdipendenza in una forza. Vorrei che passassimo da "un’economia degli sgocciolamenti", nella quale soltanto alcune fasce della popolazione sono avvantaggiate, a un’economia dove tutti i semi vengono annaffiati».Una delle proposte chiave di "Quello che ci unisce" è sollevare le donne del lavoro di cura non retribuito di bambini e anziani che verrebbe assunto dallo Stato sotto forma di sussidi e assegni familiari. Per Minouche Shafik in Paesi come l’Italia questo potrebbe avvenire con periodi di congedo dal lavoro pagati, sia per i papà che per le mamme, oppure con voucher con i quali i genitori possano pagare chi si prende cura dei loro figli e rimanere così al lavoro e anche finanziando, attraverso buoni, asili nido e scuole materne.«In questo modo lo Stato dice alle famiglie che la società le aiuterà», spiega l’esperta, «Si tratta di interventi necessari in Italia, dove l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro ha comportato un calo drammatico della fertilità, perché il mondo femminile, che da sempre si è occupato di piccoli e anziani, si è ritrovato con un carico di lavoro troppo grande. Non è facile fare marcia indietro, quando si tratta di calo delle nascite, come hanno dimostrato Corea e Giappone, dove ai papà è stato offerto un congedo dal lavoro pagato di due anni senza che nessuno ne approfittasse. Nel mio mondo ideale alle famiglie viene presentato un menu che offra diverse possibilità. Mentre per i primi due anni di vita, infatti, è importante che un bambino sia curato dal papà e dalla mamma, dopo è cruciale, per il suo futuro, che frequenti asili nido, giocando con altri bambini della sua età».

L’autrice spiega che c’è uno squilibrio considerevole da correggere: «In questo momento, in tutto il mondo, le donne portano un carico doppio, rispetto agli uomini, quando si tratta di cura della casa e dei figli. Le statistiche ci dicono che le mogli fanno due ore di lavoro non pagato in più, al giorno, rispetto ai mariti, anche se si tratta di una media perché andiamo dai 20 minuti in più della Norvegia alle 10 ore in più del Pakistan». Secondo Minouche Shafik se non si trova il modo di aiutare le donne, queste ultime «si ritroveranno senza scelta e dovranno rinunciare alla loro carriera con costi enormi per l’economia e per la società che hanno bisogno del lavoro femminile per essere più produttive». Perché questa situazione cambi ci vogliono «più aiuti dallo Stato e una maggiore disponibilità, da parte di mariti e partner, a condividere i lavori domestici».La direttrice della Landon School of Economics racconta una storia molto significativa. In Islanda, tradizionalmente, erano le donne a prendere la maternità per occuparsi dei figli. Poi lo Stato ha deciso di dare quattro mesi di assenza pagata dal lavoro alle mamme, quattro ai papà e altri quattro da condividere tra marito e moglie. Il periodo di paternità, però, sarebbe andato perso se non fosse stato usato dai mariti. All’improvviso centinaia di uomini hanno cominciato a rimanere a casa a curare i figli. È un esempio che dimostra come un piccolo cambiamento nelle politiche familiari ha la forza di sovvertire norme sociali che durano da secoli.«In questo momento, in tutto il mondo, più donne, rispetto agli uomini, si laureano. Come possiamo assicurarci che tutti questi talenti non vadano sprecati?», si chiede la famosa economista, «E questo è particolarmente vero per società, come quella italiana, che stanno invecchiando rapidamente e che hanno bisogno di una forza lavoro che paghi per le pensioni».

L’autrice di "Quello che ci unisce. Un nuovo contratto sociale per il XXI secolo" passa poi ad illustrare quali riforme fiscali sono cruciali perché lo Stato recuperi un ruolo fondamentale nella gestione di sanità e istruzione. «Prima di tutto dobbiamo tassare il carbonio, se vogliamo battere il cambiamento climatico, perché, così, entriamo in ogni angolo e fessura dell’economia e cambiamo i prezzi di moltissimi prodotti», spiega Minouche Shafik, «Ci sono modi per rendere questa tassa progressiva senza che punisca i più poveri – afferma – Poi dobbiamo imporre maggiori aliquote sul capitale e meno aliquote sul lavoro. In moltissimi Paesi tassiamo molto il lavoro e molto poco il capitale perché abbiamo caricato il lavoro di molti costi di sicurezza sociale come le pensioni e i sussidi per la disoccupazione. In compenso tassiamo poco il capitale perché abbiamo paura che, se non lo facessimo, il capitale si sposterebbe in altri Paesi».Secondo l’esperta un esempio di questo cattivo equilibrio fiscale sono gli Stati Uniti dove «la tassazione effettiva del capitale è il 5% mentre quella del lavoro è il 25% e viene, così, scoraggiata la formazione di nuovi posti di lavoro. Penso che dobbiamo ripensare questo approccio così da finanziare pensioni e indennità di salute e di disoccupazione con aliquote sui redditi anziché sugli stipendi».

È la Danimarca, per Minouche Shafik, il Paese che, in questo momento, applica meglio il contratto sociale proposto dal libro: «Il mercato del lavoro è molto flessibile ma, se qualcuno rimane disoccupato, lo Stato investe nella formazione professionale così che quell’individuo possa trovare una nuova occupazione». Una percentuale molto alta della popolazione, sia maschile che femminile, lavora, cambiando spesso impiego e pagando le tasse. I cittadini si sentono molto sicuri perché sanno che non saranno lasciati soli se dovessero perdere il posto di lavoro. C’è una bassa disparità sociale e i cittadini si fidano sia gli uni degli altri che dello Stato. Il risultato è che la Danimarca risulta sempre in cima alle classifiche dei Paesi più felici.E quali Paesi si stanno avvicinando più rapidamente alla realizzazione del sogno di una società veramente giusta proposto dal libro della direttrice della Landon School of Economics? Minouche Shafik non ha dubbi. Due Paesi guidati da donne che stanno cercando di cambiare le proprie strategie economiche, la Nuova Zelanda di Jacinda Ardern e la Scozia di Nicola Sturgeon.

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