venerdì 7 aprile 2023
Bottiglie di plastica usate al posto dei mattoni: così vengono realizzate le casette nel compound di Santa Monica, nella capitale ugandese Kampala
La casa di plastica: c’è vita oltre lo scarto
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La plastica, abbandonata ovunque, soffoca l’Africa. Ma, mentre i grandi della Terra sottoscrivono documenti che poi vengono disattesi, c’è chi prova a fare qualcosa dal basso. «Se raccogli le bottiglie di plastica da terra, ti regalo una penna e dei quaderni». Così l’ugandese suor Rosemary Nyirumbe, 67 anni, della congregazione del Sacro Cuore di Gesù, fondata da un comboniano trentino, è riuscita a far appassionare tanti giovani alla sua causa, la cura dell’ambiente. «Vedevo tante persone buttare i rifiuti a terra – dice –. E mi arrabbiavo tantissimo. Poi ho pensato che, invece di arrabbiarmi, dovevo provare a fare qualcosa, trasformare la mia rabbia in azioni positive. Cominciai a studiare quali potevano essere gli impieghi della plastica. Sul Web trovai che un gruppo di persone che, nella zona della capitale Kampala, costruiva latrine e cisterne d’acqua con le bottiglie di plastica».

Suor Rosemary decide di andare a vedere. Il progetto le suscita grande interesse perché corrisponde proprio alla sua idea di protezione dell’ambiente. Torna con un gruppo di amici al fine di imparare questa tecnica di edilizia sostenibile. Ovvero come si trasforma uno scarto in qualcosa di utile. Un mese di apprendimento e poi di nuovo a Gulu, nel nord dell’Uganda, dove suor Rosemary vive con alcune consorelle. Ma il suo progetto è molto più ambizioso. Non si tratta più di costruire cisterne, bensì di costruire case, per accogliere gli ospiti. Arriviamo sul posto, nel compound di Santa Monica. Ed ecco le casette, diffuse nel cortile. Sono tondeggianti, esternamente tradizionali, si intonano con il contesto. All’interno sono belle, arredate in maniera moderna, e sono fresche. Importante quando fuori c’è un caldo torrido. Quello che ancora non sappiamo è che i muri non sono di cemento, materiale molto impattante sull’ambiente per il grande quantitativo di acqua che richiede, bensì di plastica, materiale leggero, resistente, duraturo. Tra le mani di suor Rosemary e dei suoi collaboratori, le bottiglie diventano mattoni. E i mattoni diventano case. Una, due, tre, qui nel compound di Gulu. Altre due ad Atiak, nel villaggio-orfanotrofio, chiamato “Sewing Hope”.

Intanto, continua il “reclutamento” di ragazzini, giovani e adulti. Suor Rosemary va da loro, nei campetti, all’università, li carica sul furgone. «Chi desidera rendersi utile, salga», dice loro. All’inizio, si tratta solo di raccogliere la plastica, buttata via. Lungo la strada, nella savana, anche fino al Sud Sudan. Poi, il compito diventa più impegnativo. Ai ragazzi viene insegnata qualche tecnica di edilizia utilizzando proprio quella plastica che hanno raccolto. Anche loro imparano a fare mattoncini. In cambio, non può mancare un bel pallone da calcio, ed altri doni. Ma la tutela dell’ambiente deve diventare un concetto chiaro a tutti, «come insegna papa Francesco». Così inizia l’opera di sensibilizzazione nei confronti della gente comune. E, mano a mano che la gente capisce che l’ambiente va difeso, il gruppo dei “seguaci” di suor Rosemary si ingrossa.

Da fare ce n’è tanto, perché per costruire una casa di tre stanze (cucina, camera e bagno), servono fra le 5.000 e le 12.000 bottiglie. Hai voglia a raccoglierne! «Il vantaggio – riprende Rosemary – è che durano tantissimo, anche trecento anni. I mattoni di plastica non si rompono e non piacciono ai topi». Nel caso in cui una di queste case fosse venduta, andrebbe sul mercato a cinque milioni di scellini, neanche 1.500 dollari. «I muri non li finisco del tutto – spiega la religiosa –, lascio qualche bottiglia in vista, perché chi viene e usufruisce di queste case, deve impararne storia e significato». Con la plastica suor Rosemary ha costruito sedie e perfino il fondo di un campo da gioco per bambini. Questa idea di rendere bello lo scarto viene da lontano, da quando, negli anni ‘80-2006, si inoltrava nella savana per cercare le ragazze rapite dai ribelli guidati da Joseph Kony. Le portava a casa sua, perché le loro famiglie le ripudiavano e la società le emarginava. Insegnava loro a realizzare meravigliose borsette utilizzando le linguette d’alluminio delle lattine. «Queste linguette per tutti erano immondizia. Così erano considerate anche le mie ragazze. Le ho “ripescate dal cestino della spazzatura”, ho insegnato loro a dare nuova vita ai rifiuti, e sono rinate». Parafrasando Fabrizio De André, “dal letame nascono i fiori”, «purché qualcuno li innaffi e se ne prenda cura con amore», conclude suor Rosemary.

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