Quando la pena incontra l’umanità: le lettere dal carcere a suor Gervasia
Il libro “Una suora all’inferno” racconta, attraverso lettere mai prima d’ora pubblicate, storie di detenuti che hanno trovato possibilità di riscatto

In un’epoca in cui abbiamo fatto l’abitudine al fatto che, in media, ogni quattro giorni un detenuto delle nostre carceri decide di farla finita (calcolando solo quelli che riescono nel tragico intento), in un Paese in cui la pena non dovrebbe mai essere contraria al senso di umanità e sempre orientata a una finalità riabilitative, Una suora all’inferno. Lettere dal carcere a Gervasia Asioli (Marietti 1820, pagine 144, euro 16,50) è il libro giusto per aprire a una prospettiva diversa, per certi versi impensabile. A curarlo due cronisti di razza: Gabriele Moroni, milanese dell’hinterland, a lungo inviato de “Il Giorno” ed Emanuele Roncalli, bergamasco già cronista di giudiziaria e caposervizio dell’“Eco di Bergamo”. I protagonisti del loro racconto sono i colpevoli accertati di delitti efferati in cui l’indignazione del lettore produce l’auspicio più incostituzionale che vi sia: «Buttare la chiave» una volta che i responsabili sono stati assicurati alla giustizia. Invece no. C’è una protagonista in più a tenere unite queste storie di riscatto oltre ogni speranza: suor Gervasia Asioli, orsolina delle Figlie di Maria Immacolata, conosciuta come la “suora postina” di Rebibbia. Vicende scaturite nel buio di una cella, dall’incontro con questa religiosa che ha restituito loro la dignità smarrita di uomini e donne macchiatisi di crimini efferati e maturate poi attraverso la “messa alla prova” delle istituzioni carcerarie. Vicende rimaste sotto traccia, per motivi di riservatezza o per ragioni di sicurezza, che ora vengono alla luce in modo prorompente attraverso le lettera pubblicate. Gli autori aiutano il lettore a ricostruire le singole vicende giudiziarie senza fare sconti nelle brevi ricostruzioni biografiche. L’operazione ha una doppia lettura, convergente. Alla luce della Costituzione, che vede attuati i suoi valori in modo tanto più eclatante quanto più vertiginoso è il divario fra il “prima” e il “dopo”. O alla luce del Vangelo, che suggella il rientro in casa del “figliuol prodigo” – fra l’incomprensione del fratello “retto” – con una grande festa e l’uccisione del “vitello grasso”.
I firmatari di queste missive piene di umanità devastata, eppure non rassegnata, sono nomi poco conosciuti, relitti umani in cerca di riscatto, “dimenticati” nelle carceri di massima sicurezza di Trani, dell’Asinara e di Ariano Irpino. Ma anche nomi che hanno contrassegnato la storia italiana più cupa, come gli ex terroristi dei Nar Gilberto Cavallini, Giuseppe Valerio Fioravanti e la moglie Francesca Mambro, condannati per la strage di Bologna; o Vincenzo Andraous, rapinatore pluriomicida, che partecipò anche – in carcere – all’esecuzione collettiva di Francis Turatello.
Ma in un ordinamento come il nostro che rifiuta la pena di morte, l’ergastolo – come diceva Aldo Moro ai suoi allievi – non può tramutarsi in una pena persino più crudele. Non c’è persona che possa essere considerata persa per sempre nella nostra civiltà giuridica. Andraous, dal regime di massima sicurezza di Ariano Irpino racconta con gioia a suor Gervasia, firmando con un affettuoso “Vince”, i passi avanti che segna la sua vita. Le parla di sua figlia e alla suora “mamma dei detenuti”, come era spesso definita, ricorda anche sua madre: «Affaticata, a cui purtroppo ho dato solo dolori, non sono stato un buon figlio».
Di Giusva Fioravanti vengono ricordati non solo i reati per i quali è stato condannato, ma anche i sospetti – non avallati dalle verità processuali – che l’hanno chiamato in causa per l’omicidio di Piersanti Mattarella. Quello che scrive a suor Gervasia è un uomo provato dal regime di isolamento di allora (che sarà poi progressivamente attenuato in virtù di un’impeccabile condotta) però con «il pensiero di chi mi vuole bene a farmi compagnia». Ci deve esser stato anche un ruolo di suor Gervasia nell’allentamento del regime carcerario accordato poi a Fioravanti, per la gioia della moglie Francesca, espressa in una accorata lettera alla religiosa.
Questa religiosa ha fatto suo il precetto evangelico di “visitare i detenuti”, mettendoci dentro, forse, anche un po’ di autobiografia, dal momento che in condotta, a scuola, prendeva sempre un sette “punitivo”. La sua vicenda ricorda quella di suor Teresilla Barillà e padre Adolfo Bachelet, che hanno speso la loro vita ad accompagnare il percorso di riconciliazione degli ex della lotta armata. Riconciliazione con le vittime ma anche fra loro. Il libro descrive anche l’amicizia nata, in carcere, fra la Mambro e le brigatiste Nadia Mantovani e Anna Laura Braghetti.
Storie che portano alla luce uno Stato non “vendicativo” che non ha operato in tal senso in un’unica direzione, essendo indulgente solo – come a volte si sostiene – con l’eversione “rossa”. La deputata leghista Simonetta Matone – che è stata magistrato e giudice minorile – firma una prefazione che è per lei come un «tuffo nel passato», avendo conosciuto molto bene suor Gervasia e la sua missione nelle carceri. Di lei ricorda una sua considerazione fulminante, in merito all’aborto: «La vita va difesa sempre. Però bisogna essere in grado di difenderla anche dopo che i bambini sono nati. In questa acuta e stravolgente affermazione fatta da una suora, c’è tutta lei, Gervasia».
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