mercoledì 10 aprile 2024
Da un lato i provvedimenti del presidente Milei, dall’altro un mercato dominato dalle grandi aziende: ai piccoli produttori della zona di Misiones, dove si concentra la produzione, restano le briciole
Deregulation e ricatti ai contadini: in Argentina è già la disfida del mate

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Appena il Sole del tramonto la sfiora, brilla come fiamma. Una sottile linea di fuoco si insinua fra i filari di piante, di un verde chiarissimo. «Ecco il segreto», dice Silvia mentre apre le dita e mostra sul palmo della mano una manciata di terra rosso-lucente. È l’alta concentrazione di ossido di ferro a conferire l’insolito colore acceso al suolo di Misiones, un migliaio di chilometri a nord di Buenos Aires. Quello dove cresce il mate. Il “tè dei guaraní” – dono della dea Yasí per ringraziare i nativi di averla soccorsa durante un’incursione sulla terra, racconta l’antico mito – si coltiva nell’area compresa tra nordest dell’Argentina, Paraguay, Uruguay e sud del Brasile. La gran parte della produzione si concentra, però, nella provincia che prende il nome dalle antiche missioni gesuitiche ospitate nel Seicento e Settecento. Le “reducciones”, dove i religiosi della Compagnia scoprirono e fecero conoscere il mate grazie al contatto con gli indigeni che cercavano di salvare dalla schiavitù imposta dai colonizzatori.

È Misiones la patria della “yerba” come la chiamano, anche se in realtà è un albero frondoso. Manca ancora qualche settimana all’inizio della stagione. Poi la famiglia di Silvia inizierà la raccolta, a mani nude, foglia dopo foglia, da prima dell’alba a mezzogiorno. «Dopo fa troppo caldo. Spesso, per ottimizzare, iniziamo quando è ancora notte se non ci sono nuvole», racconta la proprietaria del “yerbal”, il campo di mate. Un appezzamento di cinque ettari, in cui crescono anche ortaggi, patate, frutta. «Non possiamo permetterci di coltivare solo la “yerba”. Ci vogliono quattro anni per il primo raccolto. Piantiamo quanto ci occorre per mangiare. Con il mate paghiamo le altre spese. Almeno finché riusciremo a reggere. Con questa situazione è difficile…».

Gli abitanti di Comandante Andresino sono preoccupati per la deregulation prevista nel “Decreto di necessità e urgenza” (Dnu), varato a dicembre dal governo di Javier Milei. In origine il villaggio era un avamposto creato dai militari all’epoca dell’ultima dittatura a un’ora da Iguazú e dalle sue cascate e a dodici chilometri dalla frontiera con il Brasile. I residenti, però, hanno imposto il nome dell’eroe guaraní che combatté per l’indipendenza dalla Spagna. Andrés Guagurarí alias Andresito.

Qui il mate è il perno dell’economia, come nel resto dei paesini sparsi nella distesa di terra rossa, fino a Oberá. Oltre l’80 per cento dei 17mila produttori ha campi estesi non più di dieci ettari. Tremila arrivano a 50 ettari. A oltrepassare tale quota sono meno di 500. Alla fine, però, è una decina di grandi aziende a controllare il comparto: quelle che hanno i maggiori volumi di prodotto e, soprattutto, gestiscono i “molinos”, un centinaio gli impianti a cui gli agricoltori vendono la “yerba” per la lavorazione, la cosiddetta “molienda”. Da questi ultimi dipende il costo finale scritto sull’etichetta.

«Il mercato del mate è singolare», sottolinea Jorge Páez rappresentante a Misiones, insieme alla moglie Caro, del movimento Evita, uno dei pilastri dell’Unione dei lavoratori e delle lavoratrici dell’economia popolare (Utep), il sindacato di quanti sono esclusi dall’impiego formale, il 50 per cento della manodopera argentina. «È poco elastico – aggiunge –: il consumo interno, che rappresenta l’85 per cento, è stabile, più o meno 20mila tonnellate all’anno». L’anno scorso sono state un po’ di più: con la crisi dilagante, il mate, che toglie l’appetito, è diventato il sostituto del cibo per le famiglie povere. «Le variazioni sono comunque poco significative – sottolinea il sindacalista –. Date le difficoltà di aumentare le vendite, i profitti delle grandi aziende dipendono dalla riduzione dei costi della materia prima. Per questo, si è sempre cercato di regolarne la superficie seminata e mantenere il prezzo a un livello accettabile per chi la coltiva, in maggioranza piccoli produttori». Una buona parte di questi non ha resistito al crollo del valore causato dal primo esperimento di liberalizzazione, firmato da Carlos Ménem negli anni Novanta e applicato dall’allora governatore Ramón Puerta, uno dei “giganti” della “yerba”. Dopo una mobilitazione senza precedenti, il cosiddetto “tractorazo”, nel 2002, è stato costituito l’Instituto nacional de la yerba mate (Inym), incaricato di concertare il costo, fissare l’estensione delle coltivazioni e certificarne la qualità. Prerogative che il decreto Milei ora cancella. O, almeno, prova a farlo: la giustizia di Misiones ha impugnato il provvedimento, al momento congelato. «Se non verrà bloccato, sarà una catastrofe», afferma serio Jorge.

«Negli ultimi vent’anni siamo riusciti a vivere in modo degno. Niente lussi, però, sono sempre riuscito ad arrivare a fine mese. E a pagare la scuola ai miei figli – racconta Adrián che, insieme al padre, ha uno “yerbal” di otto ettari –. Prima dell’Inym non avrei potuto. Il raccolto non valeva niente». Appena cinque anni dopo la creazione dell’organismo, il valore di un chilo di foglie si era già moltiplicato per otto. L’anno scorso, si è assestato a quota 240 pesos, l’equivalente di 24 centesimi di euro. Un pacchetto da mezzo chilo al supermercato costa 15 volte tanto. Quest’anno, con l’inflazione galoppante, i coltivatori chiedono il raddoppio del pagamento della “yerba”. I negoziati sono in corso e l’Inym sta cercando di mediare, in attesa di capire se sopravviverà allo tsunami liberalizzante di Milei.

Da ogni ettaro si ricavano, in media, 15mila chili. «Da soli, con la mia famiglia, non ce la facciamo a raccoglierle. Contrattiamo, dunque, 4 o 5 “taraferos”». Così sono chiamati i braccianti de la “yerba”, 18mila persone a Misiones che costituiscono l’anello più debole della sua catena di produzione. «È un lavoro durissimo. Sono cresciuto “taraferando”, non avevamo altra scelta all’era della deregulation. Andavo al campo la notte, staccavo per andare a scuola e, poi, di nuovo, la sera. Quante volte mi sarà ferito le dita su questi rami – dice, mentre accarezza un albero di mate –. All’epoca, poi, la strada era pessima. I camion si fermavano in fondo e dovevi portare i sacchi di yerba a spalla. Pesavano 80, 100 chili. E dovevi fare in fretta, per tornare a raccogliere…».

I “taraferos” sono pagati in base alla quantità ottenuta, in media mezza tonnellata al giorno. Per ogni chilo, ricevono tra il 10 e il 20 per cento del prezzo pagato dai “molinos”. «Se quest’ultimo crolla, il lavoro del “terafero” non vale più niente. Già così è poco – spiega Jorge –. E, oltretutto, sono impiegati solo da marzo a settembre, la stagione del raccolto. Fino a dicembre, il governo copriva almeno quattro dei mesi vuoti con un piccolo sussidio, metà del salario minimo. Ora Milei l’ha tagliato». «A gennaio non ho ricevuto niente. Non so come farò ad arrivare al raccolto. Non è tanto per me, sono sempre stata povera, sono abituata a mangiare poco. Ma i miei figli, mi si spezza il cuore…», dice Sonia, che ha iniziato a “tarefear” a 12 anni. «L’unico modo per combattere lo sfruttamento è l’autorganizzazione dei lavoratori. Purtroppo solo un terzo è sindacalizzato. È difficile metterli insieme».

Jorge e Caro lo sanno per esperienza: dal 2009 cercano di aiutare i coltivatori a unirsi in cooperative. Caburei, appena fuori Comandante Andresito, è la prima delle 32 finora create. «Siamo in 50. Produciamo marmellate e manioca», racconta orgogliosa Liliana, la presidente mentre mostra la cucina dove avviene la lavorazione della frutta. «Prima la bollivamo in una pentola sotto un albero con un po’ di legna. Mettendoci insieme abbiamo potuto acquistare il necessario per fare delle confetture vere». Caburei ha anche unito le forze con altre 4 cooperative in modo da partecipare ai bandi per i sussidi e mettere su un “secadero”, sito per seccare le foglie prime della “molienda”. «Magari, alla fine, riusciremo ad avere anche un “molino” nostro. Così – conclude Jorge – controlleremmo tutta la catena di produzione e saremmo indipendenti dai ricatti dei grandi. È un sogno. Come papa Francesco insegna, i sogni si costruiscono insieme, altrimenti sono solo miraggi. Il mate ce lo ricorda: non è solo una bevanda, è un rito: si passa in cerchio, uno dopo l’altro, da destra verso sinistra. Mentre beviamo, ci scopriamo comunità».


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