
Qualche mese fa, durante un incontro tra amici, si è parlato del futuro del nostro pianeta. È un argomento ormai divenuto banale. Il futuro della Terra è oscuro, gli uccelli stanno scomparendo, nulla può impedire il riscaldamento globale e gli appetiti delle nazioni si mostrano di nuovo chiaramente. Minacce di crisi, minacce di guerra, nulla va per il verso giusto. Non è stato questo tema ormai convenzionale a sorprendermi. È stata piuttosto la diagnosi condivisa dagli ospiti. La diagnosi era la seguente: l’uomo è un essere nocivo, il più pericoloso che esista. Con la sua natura nociva, ha devastato il pianeta. È la causa della sua rovina. Lui stesso è un errore di questa natura che sta divorando. Il modo migliore per salvare la natura è che l’uomo scompaia. Certo, le cose non venivano dette in modo così sistematico. Ma la frase: « L’uomo è da sempre un predatore che distrugge il pianeta» è stata pronunciata, condivisa e data per scontata. Quindi l’uomo non è solo un lupo per l’uomo, ma anche un lupo per il lupo, per l’agnello e per la rondine. È peggio di un lupo perché è un uomo. Ciò non ha sollevato alcuna obiezione. Tranne la mia. Ho fatto notare che questa antropologia da salotto trascura l’attuale funzionamento economico della nostra società. E che prima di stilare una requisitoria definitiva contro la “natura umana” e la sua presunta inclinazione alla devastazione del mondo, ci si dovrebbe interrogare sulle condizioni materiali in cui sono posti gli esseri umani contemporanei per agire e per lavorare.
Sono forse queste condizioni, e non la loro natura, che portano gli uomini a saccheggiare. Trovare nell’essere umano dei peccati costitutivi significa risparmiarsi la fatica (o il dovere) di criticare il consumo, la produzione e le interazioni nel mondo sociale concreto in cui questi vive qui e ora. È così che l’antiumanesimo diventa doppiamente efficace rispetto al fatalismo economico imperante: preferiamo spiegare per mezzo del destino dell’uomo incorreggibile i disastri prodotti invece dal sistema economico, piuttosto che rimettere in discussione il comfort che questo offre. Si dice: « Non può essere altrimenti», « Non c’è alternativa» e, infine, « Da sempre, l’uomo è un predatore che distrugge il pianeta». Da sempre, quindi oggi non più di ieri. Si trasferisce sull’essere umano la critica nei confronti del sistema che liquida gli esseri umani. La vittima diviene il carnefice. L’antiumanesimo e il fatalismo economico vanno di pari passo.
Immaginiamo dei costruttori senza architetto, chiamati a costruire un edificio. Posano pietre, creano aperture, delimitano corridoi e stanze. Per orientare i loro sforzi, si affidano all’intuizione che alla fine scopriranno essere un architetto invisibile ma ispiratore che darà un senso ai loro sforzi. Speculano sulle prodezze di questo spirito superiore, che cancellerà i loro laboriosi tentativi per costruire l’edificio. Ma, muro dopo muro, si rendono conto che stanno costruendo un labirinto nel quale si perdono. Aprono nuove porte, creano corridoi per uscirne, ma non fanno altro che rinchiudersi ulteriormente in un’architettura inestricabile. E alla fine prendono coscienza del fatto che l’inafferrabile Spirito, come loro, non ha una mappa delle uscite, e che non vi è altro che gli intrichi senza fine del labirinto. Non gli resta che continuare la costruzione, presagendo vagamente che solo la loro stessa scomparsa ne impedirà l’assurda espansione.
È così che potremmo immaginare il sistema economico e sociale contemporaneo e il disordine che esso produce. Sommersi da debiti inesigibili, ma continuando a speculare freneticamente, pretendendo che non ci sia alternativa se non quella di inseguire un futuro evanescente che solo potrebbe estinguerli, percepiamo che i debiti non si cancelleranno, almeno non senza che si cancellino anche gli indebitati. Ho sentito il bisogno di scrivere su e contro questo fatalismo morboso. Non per un improvviso slancio di ottimismo o di rivolta, ma perché non credo che il destino degli uomini sia quello di morire in un labirinto. Meglio ancora, perché credo che il loro destino non sia quello di perdersi in esso. Gli esseri umani non sono da sempre dei predatori idioti. Lo sono solo da poco tempo, sebbene con perseveranza. Lo sono perché un particolare sistema economico e sociale li incoraggia a esserlo. Ma l’incoraggiamento è dolce, furbo, apparentemente senza esigenze chiare, se non quella di continuare a costruire questo mondo irragionevole. Questo sistema, lo chiamo capitalismo speculativo.
È importante sapere come funziona, come vi contribuiamo e come vi soccombiamo; fornirne una mappa per conoscerne l’estensione e la potenza. E infine, è importante capire perché il fatalismo antiumanista contemporaneo che imperversa ovunque, persino in un incontro tra amici, è così necessario al suo sviluppo. Questo è l’obiettivo che mi sono prefissato, innanzitutto per fare luce sull’argomento dentro di me e, spero, per condividerla con dei lettori. Questo libro inizia come l’indagine che avevo proposto in Le travail invisible. Prende deliberatamente spunto dallo stesso evento (la riforma dei fondi pensione negli Stati Uniti nel 1974) e prosegue le ricerche fino al periodo attuale. Il mio intento in quel testo era di mostrare come la finanziarizzazione abbia occultato la questione del lavoro e perché sia necessario riconsiderarla. Nel presente lavoro, amplio il discorso mostrando che la finanziarizzazione e in seguito la digitalizzazione sono state fasi successive dello stesso capitalismo speculativo. Ne descrivo le caratteristiche e i meccanismi che ne garantiscono la crescita e l’innovazione. Mostro come la finanziarizzazione e la digitalizzazione abbiano, di volta in volta, rappresentato dei trasmettitori di credenze indispensabili affinché prosperasse la speculazione eretta a sistema.
In questa nuova indagine, non mi interessano tanto i dettagli quanto il racconto generale, che mette insieme i pezzi apparentemente contraddittori di un puzzle e che arriva alla conclusione che fatalismo e antiumanesimo appartengono allo stesso spirito del tempo. Lungi dal testimoniare l’esistenza di contraddizioni o di una crisi depressiva della nostra società, essi sono paradossalmente evocati dall’impeto speculativo che la fa avanzare. Nel modo più oggettivo possibile, ho cercato di raccontare le promesse, i successi e gli incantesimi di questa nuova forma di capitalismo. In definitiva, ho voluto far capire in cosa crediamo quando crediamo che esso si realizzi. L’epilogo fornisce la chiave dell’indagine. Di fronte a uno svolgimento apparentemente implacabile, la nostra coscienza insoddisfatta resiste. In realtà, l’unica via d’uscita per l’uomo contemporaneo non è aderire al fatalismo antiumanista e sottomettersi alle seduzioni del capitalismo speculativo. La vita reale, il lavoro e il buon senso impediscono già la liquidazione degli umani nella grande narrazione economica. Questo è ciò che abbozzerò al termine dell’indagine, come invito al realismo.
Questo testo è il Prologo di “L’astuzia del capitalismo”, libro dell’economista Pierre-Yves Gomez pubblicato in Italia da Città Nuova.