giovedì 4 novembre 2021
La cooperativa nata nel 2008 ha realizzato edifici a basso costo in Israele e nei territori occupati con materiali di recupero «Baluardi di diritto all’istruzione anche in contesti estremi»
Il progetto The Children Land di ARCò

Il progetto The Children Land di ARCò

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Talvolta, quando l’architettura si fa cooperazione, anche i progetti, i materiali e le modalità costruttive diventano ecosostenibili. In questi casi succede che all’edilizia tradizionale in mattoni o calcestruzzo si sostituiscano pneumatici riciclati e sacchi pieni di sabbia, gabbioni di metallo e pietre, e poi paglia, argilla, canne da fiume, bambù, lamiera, tubi di metallo e tutto ciò che si trova in loco. Quando l’architettura – ma anche l’urbanistica – si trova ad affrontare le emergenze umanitarie e a dover dare risposte rapide alle richieste delle comunità che vivono nei territori in crisi (a causa di guerre, conflitti e cambiamenti climatici), la progettazione può farsi per davvero virtuosa, fondandosi sull’upcycling, sulla creatività, sulla sostenibilità economica, sociale e ambientale, nel tentativo di migliorare le loro condizioni di vita. Quella che guarda allo sviluppo dei popoli è, insomma, un’architettura che a volte parte dalla sperimentazione e dalla libertà per promuovere con rispetto – quel rispetto che 'impedisce di abusare di questa libertà', come scrisse in modo magistrale Fabrizio Carola, uno dei pionieri dell’architettura della cooperazione in Africa – un discorso che altre figure appartenenti al mondo della costruzione non riescono o non vogliono esprimere. Tra i (pochi) professionisti che da tempo hanno ingaggiato una pratica di questo tipo c’è ARCò, una cooperativa che fa attività di ricerca in ambito accademico per applicarla poi agli ambienti più difficili, adattandola a contesti, pratiche e consuetudini locali.

Nata nel 2008 a Milano con sette giovani soci tra architetti e ingegneri (a cui presto si affiancheranno anche sociologi), negli anni ha collaborato con movimenti e agenzie per la cooperazione e lo sviluppo, con studi e associazioni di architettura per il sociale, Ong e Onlus, disegnando asili per l’infanzia, scuole, cliniche, centri polifunzionali, sistemi di spazi pubblici inclusivi nei luoghi più a rischio del mondo tra l’Africa, il Medioriente, l’America Latina, l’Asia. «La nostra architettura è partecipata, orizzontale, fatta di condivisione e di ascolto, di collaborazione e reciproco apprendimento; inoltre, siamo tra a pochi, nell’ambito dell’ 'architettura umanitaria', a portare avanti una battaglia contro l’uso e abuso del cemento», esordisce Alessio Battistella, architetto milanese che di ARCò è socio fondatore e presidente. «Abbiamo cominciato con la piccola Ong lombarda Vento di Terra, rispondendo ad una loro richiesta di progettare una scuola a costi bassissimi nel villaggio beduino di Al Khan Al Ahmar, tra Gerusalemme e Gerico: da una struttura in legno e lamiera preesistente è nata la 'scuola di gomme', chiamata in questo modo perchè realizzata con 2200 pneumatici recuperati da discariche, combinati con argilla e le- gno per non contravvenire ai regolamenti militari israeliani che vietavano la costruzione non autorizzata di edifici nell’area da loro controllata». Costata circa 82mila euro e dotata di un sistema di pannelli fotovoltaici che si aggiunge alla capacità termica dei pneumatici, la genesi di questo edificio costruito con l’aiuto della Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, della Cei e di una rete di comuni italiani, non è stata, tuttavia, facile. «Abbiamo dovuto tenere conto di tanti limiti e di tante difficoltà, considerato che non potevamo usare il cemento o altri materiali tradizionali; che avevamo l’obbligo di trovare un sistema costruttivo che fosse rapido, semplice e allo stesso tempo economico; inoltre, avevamo la necessità di utilizzare la minore quantità d’acqua possibile, di inserire l’edificio nel paesaggio e, persino, di ipotizzare la sua completa auto-costruibilità in modo da ridurre la presenza straniera nel campo. Dal principio il nostro progetto è stato seriamente ostacolato dal capo del villaggio, che considerava una follia la costruzione di una scuola con i pneumatici, ma una volta realizzato è diventato l’orgoglio della comunità e un luogo importante per quel territorio».

Nonostante questo, le strade che conducono al campo beduino sono state più volte interrotte dalle autorità israeliane allo scopo di allontanare da lì la comunità e deportarla altrove, e la 'scuola di gomme' è da tempo sotto la minaccia di chiusura da parte del governo di Gerusalemme: «L’edificio, comunque, è ancora in piedi, e anche per questo è diventato un baluardo diritto all’istruzione anche in contesti estremi», precisa ancora Battistella, che è anche docente del Master for Development al Politecnico di Milano e membro del comitato scientifico di In/Arch e di S.O.S. School of Sustainibility di Mario Cucinella. «Non è l’ideologia a muoverci e non abbiamo interessi politici di alcun tipo ma ci rendiamo conto che è proprio fornendo servizi alle comunità in difficoltà che, alla fin fine, facciamo politica». Quella ad Al Khan Al Ahmar non è la sola scuola commissionata ad ARCò da Vento di Terra insieme a diverse Ong e finanziata anche da Unicef, Un Ocha, Ministero degli Affari Esteri e Cei: altre sono state costruite dagli abitanti stessi ad Al Azarije, nei territori occupati palestinesi, ad Um al Nasser, in un villaggio di profughi lungo la Striscia di Gaza (la struttura, chiamata 'Terra dei Bambini', ospitava quasi 150 alunni ma è andata distrutta nel 2014 durante gli scontri seguiti all’offensiva israeliana 'Margine protettivo') e ad Al Jabal, in Palestina, fabbricata nel 2015 con gabbioni metallici riempiti con pietre, in una località desertica abitata da tribù in precedenza sfrattate dai propri territori rurali. «Abbiamo progettato la scuola nel campo beduino di Wadi Abu Hindi nel 2010, intervenendo, come ci era stato imposto dall’autorità militare israeliana, in una struttura in lamiera preesistente: il pacchetto murario di calce, bambù, argilla e paglia che abbiamo ideato per l’occasione, è esportabile e scalabile, tra l’altro, in qualsiasi favela del mondo. Il centro per l’infanzia 'Terra dei Bambini', invece, l’abbiamo progettato nel 2011 con lo studio Cucinella ed è stato edificato con sacchi riempiti di sabbia e impilati l’uno sull’altro: in quel caso avevamo reinterpretato il modello della tenda beduina», continua il presidente della cooperativa a cui sono andati riconoscimenti importanti come il Regional Holcim Award Africa Middle East, il Premio Fondazione Renzo Piano e il Premio Medaglia d’oro all’Architettura italiana. «Due anni dopo la distruzione di 'Terra dei Bambini', e grazie ancora una volta a Vento di Terra, ci siamo rimessi al lavoro per riprogettarla, rendendola ancora più efficiente sotto il punto di vista bioclimatico: oggi non solo i piccoli del villaggio ma anche le loro mamme frequentano quello che è divenuto il centro educativo e socio assistenziale 'La nuova Terra dei Bambini'. Inoltre, stiamo lavorando insieme con diversi neolaureati e ricercatori italiani ad una serie di proposte per far nascere presto una nuova attività produttiva nel Burkina Faso».

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