mercoledì 20 aprile 2022
La modalità ibrida tra competente digitali e relazioni in presenza è la preferita dalle aziende
Lo smart working è ormai entrato nella routine degli italiani

Lo smart working è ormai entrato nella routine degli italiani - Ansa

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Lo stato di emergenza è finito, lo smart working resta. Si è molto parlato di come il ciclone covid avrebbe cambiato la nostra società. Ebbene uno dei lasciti più importanti riguarda proprio il mondo del lavoro. Il superamento del tradizionale modello fisso quotidiano casa-viaggio-ufficio e ritorno soppiantato dalla possibilità di operare sempre di più anche a distanza, in nome di un bilanciamento più flessibile tra la vita lavorativa e quella familiare: ecco il nuovo paradigma del lavoro agile, sulla spinta più generale di una maggiore attenzione al benessere individuale e collettivo. Una trasformazione che anche nella nuova crisi economica legata alla guerra potrebbe consolidarsi. Lo smart working ormai è tutt’altro che un fenomeno di nicchia e sta cambiando le nostre abitudini. Secondo le previsioni dell’Osservatorio sullo SW del Politecnico di Milano, quasi 4,5 milioni di lavoratori (su un totale di circa 22 milioni di occupati) continueranno dopo la pandemia ad operare, almeno in parte, da remoto: si tratta di 2 milioni di dipendenti delle grandi imprese, 700 mila delle pmi, poco meno di un milione nelle microimprese e altri 680mila nella pubblica amministrazione.

Oggi circa un lavoratore su 5 è coinvolto nel lavoro a distanza, dieci volte di più di un paio di anni fa. Una diffusione importante se togliamo dal conto le molte mansioni dell’industria, dei servizi, dell’agricoltura, del turismo non remotizzabili. Il punto di svolta è stato il lockdown del marzo 2020. Quando oltre 5 milioni di lavoratori, tra mille difficoltà tecniche, operative e persino psicologiche, sono rimasti a casa cercando di fare quel che erano abituati a fare nella sede di lavoro. Una maxi-spe- rimentazione forzata dal covid ma resa possibile dalla diffusione delle tecnologie digitali. Si è trattato, almeno all’inizio, soprattutto di tele-lavoro. Mentre lo smart working vero e proprio definisce una modalità di effettuazione della prestazione con maggiori elementi di autonomia nel raggiungimento degli obiettivi, oltre che nella possibilità di lavorare da remoto. Dal punto di vista normativo, con la pandemia il governo ha dato la possibilità alle aziende di regolare in via semplificata il lavoro agile, senza la necessità di sottoscrivere accordi individuali con i dipendenti. Una modalità confermata fino alla fine di giugno. La novità è che nel frattempo gran parte delle grandi imprese e molte anche tra le medio-piccole hanno firmato accordi con i sindacati per rendere strutturale il ricorso al lavoro agile. Anche nel pubblico impiego dopo lo stop dell’autunno 2021 al lavoro a distanza emergenziale, molte amministrazioni stanno adottando modelli di alternanza casa- ufficio. E i sindacati, che pure avevano qualche perplessità, hanno favorito questa trasformazione che in genere è ben vista dai lavoratori interessati. Siamo dunque di fronte a un cambio di prospettiva che spinge le aziende a rivedere i loro modelli gestionali con l’obiettivo di migliorare, insieme al work-life balance dei dipendenti, anche la produttività del lavoro. Oltre agli effetti interni alle imprese ci sono ricadute positive per la collettività: la riduzione degli spostamenti casa-lavoro fa risparmiare e limita inquinamento e congestione delle città. Ma come in ogni cambiamento ci sono anche possibili aspetti problematici da tener presenti: la dilatazione degli orari di lavoro, l’isolamento del lavoratore nella sua 'comfort zone' domiciliare, lo svuotamento di certi quartieri urbani. Da valutare anche il rischio di una ulteriore parcellizzazione dei contratti di lavoro e di un allargamento del dualismo tra i lavoratori da tastiera, privilegiati perché più 'liberi', e quelli costretti in sede alle mansioni manuali. Oggi la diffusione dello smart working rappresenta dunque un salto qualitativo, una sfida.

«Le persone – racconta Alfonso Fuggetta, Amministratore Delegato e direttore scientifico del Cefriel, Centro di Innovazione Digitale fondato dal Politecnico di Milano che si occupa di accompagnare lo sviluppo digitale delle imprese pubbliche e private – apprezzano il nuovo tipo di equilibrio che non è solo un cambiamento di orario e luogo di lavoro per stare più in famiglia ma anche di gestione dei compiti». Il 'lavoro smart' come qualcosa di più e di diverso dal telelavoro. «Questo significa maggiore responsabilizzazione e autonomia delle persone, più flessibilità nelle modalità di realizzazione della propria attività», spiega Fuggetta. Perché questo accada occorrono alcune condizioni di base. «La prima è di tipo infrastrutturale: il pc personale ai dipendenti, la Rete e soprattutto la digitalizzazione di tutti i processi lavorativi. La seconda riguarda le competenze di base del singolo necessarie per l’utilizzo di strumenti digitali. Ma poi soprattutto occorre una riorganizzazione del lavoro, dei processi lavorativi e decisionali, una cultura aziendale adeguata che permetta di lasciare autonomia alle persone. Va superata l’abitudine del faccia a faccia, del controllo diretto». Al Cefriel sono pionieri dello smart working, che hanno cominciato ad adottare nel 2017, ben prima dell’emergenza Covid.Ma non sono massimalisti del 'tutto da lontano'. «Negli anni della pandemia abbiamo fatto di necessità virtù ma – aggiunge Fuggetta – non è vero che si faccia tutto meglio da remoto. Per certe dinamiche è meglio la presenza, il lavorare insieme, soprattutto nelle attività che richiedono interazione, come l’elaborazione e la discussione di idee. Al contrario, se ho bisogno di silenzio e concentrazione forse lavoro meglio a casa che in un ufficio open space. Meglio pertanto uscire dalla logica del tutto o niente e cercare un ragionevole equilibrio da modulare in base alle esigenze dell’azienda e delle persone. E’ doveroso sfruttare al meglio gli elementi di flessibilità che il digitale consente, tenendo presente che - sottolinea ancora il manager - in azienda conta anche la chiacchierata davanti alla macchinetta del caffé, il rapporto diretto, di persona, che aiuta la relazione tra colleghi».

In effetti, sempre secondo i dati dell’Osservatorio, prevale oggi uno smart working con modalità 'ibride', ovvero con un’alternanza tra lavoro in sede e a distanza. Nelle grandi imprese in media non si va in ufficio 2 e spesso 3 giorni a settimana. In taluni casi la scansione è mensile. Diversi accordi aziendali sul lavoro agile, che è sempre su base volontaria, valorizzano la condizione familiare dei lavoratori. Chi ha figli piccoli, disabili o anziani da accudire spesso ha una corsia preferenziale per lavorare fuori sede. «Ci sono anche modelli ibridi che prevedono la possibilità di lavorare in diverse sedi aziendali o in centri di coworking, soprattutto quando per il lavoratore la prestazione a domicilio ha delle controindicazioni – aggiunge la direttrice Fiorella Crespi –. Non si tratta dunque solo di restare a casa ma di lasciare spazio a una maggiore flessibilità nella modalità di prestazione». Un’altra novità è che nelle ricerche di lavoro l’opzione dello smart working sta diventando un’esigenza diffusa. «Le persone lo chiedono perché questo risponde al loro bisogno di equilibrio tra vita privata e lavorativa – spiega ancora Fuggetta – . Sempre di più percepiamo che nella negoziazione per un posto di lavoro contano, oltre ai soldi, anche le modalità di lavoro, la flessibilità negli orari, le possibilità di crescita professionale e l’attenzione alla responsabilizzazione del singolo. Oggi occorre dunque una cultura di impresa che ristrutturi il modello di lavoro sia come spazi che come luoghi, sia come responsabilità ed autonomia del dipendente, che come rispetto della vita privata». Il cambiamento delle modalità di lavoro va così a intersecarsi con altre tendenze in atto in questi anni, come la maggiore propensione a cambiare azienda. In Italia non siamo davanti al fenomeno della Great resignation, le dimissioni di massa registrate negli Usa dal 2021. Ma i dati indicano che, dopo la frenata del 2020, anche da noi le dimissioni volontarie lo scorso sono salite (segnando un +12% sul l 2019). Un segnale di maggiore nomadismo, almeno per i lavoratori con competenze qualificate. Forse dovuto anche a quella ricerca del benessere lavorativo, oltre che di uno stipendio, del quale lo smart working è uno degli aspetti.

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