mercoledì 6 aprile 2022
Per Ilaria Tabusso Marcyan, visiting assistant professor alla Miami University di Oxford, in Ohio, sta nel cibo la risposta alle grandi e urgenti questioni ambientali che riguardano il futuro
Ilaria Tabusso Marcyan, visiting assistant professor alla Miami University di Oxford, in Ohio

Ilaria Tabusso Marcyan, visiting assistant professor alla Miami University di Oxford, in Ohio

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«Porto agli studenti americani la preziosa lezione culturale che ci ha lasciato il nostro mondo contadino, fatto di antichi saperi, di rispetto per la terra e per ciò che dona: in questo modo non solo imparano a riconoscere le differenze tra un cibo sano e uno “spazzatura”, ma scoprono che esistono altri stili di vita, più in armonia con la natura, e si impegnano per far stare meglio anche la comunità». Per Ilaria Tabusso Marcyan, cinquantatré anni, romana, Visiting Assistant Professor alla Miami University di Oxford, in Ohio, sta nel cibo la risposta alle grandi e urgenti questioni ambientali che riguardano il futuro dell’umanità (ma che i potenti della terra continuano a sottovalutare). Con il corso che ha ideato nel 2017 all’interno del Dipartimento di Francese, Italiano e Studi classici e che insieme con il coordinatore del suo programma, Andrea Righi, ha intitolato “Culture italiane sul cibo in contesto”, punta a far comprendere ai giovani americani quanto sia importante sostituire rapidamente questo modello agricolo alimentare – che ha come obiettivo la crescita illimitata della produzione a spese della sopravvivenza del pianeta – con modelli virtuosi, peraltro già esistenti. Quello dominante, infatti, è un sistema destinato ad implodere se non si cambia, e subito, il modo con cui si coltiva, si produce, si commercializza e si consuma il cibo. Povertà, migrazioni, diritti calpestati, saccheggio e spreco delle risorse naturali, scomparsa della biodiversità, devastazione del paesaggio sono solo alcuni dei temi che con il cibo si intrecciano e si confondono.

«L’agricoltura è la madre della gran parte dei problemi delle nostre società», afferma la ricercatrice italiana, sposata con un fotografo americano con cui condivide l’amore per l’India e approdata alla Miami University dopo aver insegnato all’Università della California San Diego, dove ha conseguito un Phd in Letteratura comparata. «Quando parlo di agricoltura non mi riferisco, però, a quella praticata dal piccolo contadino rispettoso del ciclo delle stagioni e della salute del suolo, testimone silenzioso di buone pratiche tramandate, anche solo oralmente, di generazione in generazione, ma all’agricoltura industriale, intensiva, mono-colturale che sfrutta e violenta gli animali e le risorse naturali, che contribuisce al cambiamento climatico, rompe gli equilibri e ci fa ammalare. Ai miei studenti parlo anche di questo, e lo faccio partendo dall’antica sapienza agricola calpestata, marginalizzata, resa invisibile: una saggezza da cui è fondamentale ripartire per affrontare le sfide ecologiche che questo secolo ci impone». Il suo interesse per i temi connessi all’alimentazione sostenibile è nato diversi anni fa nell’ambito delle ricerche per la tesi di dottorato sulla “Letteratura della Resistenza e la cultura contadina italiana”. «E da lì si è sviluppato anche il mio corso, dove porto i contributi del mondo contadino alla lot- ta partigiana, illustro le esperienze di bioregionalismo sorte dopo la Seconda Guerra Mondiale e le proposte che ci arrivano dalle tradizioni delle campagne italiane», continua Tabusso Marcyan.

«Parto dal nostro Paese e dal patrimonio di eco-saperi che ha plasmato il paesaggio per parlare di cibo e di tutto ciò che a esso si riallaccia, come l’insicurezza alimentare, la giustizia sociale, fino ai movimenti che partono dal basso e alle comunità sostenibili create in opposizione alla pratica della produzione industriale per risvegliare le varie economie rurali locali, come ha fatto Carlo Petrini con Slow Food e con il network di food communities Terra Madre. Successivamente, invito i ragazzi a guardarsi intorno, a osservare la loro realtà, a comprendere il modo in cui l’agricoltura ha modellato questa società e definito questo specifico paesaggio – siamo nel Midwest americano –, e le lezioni, a questo punto, si spostano nei campi e nelle fattorie». È una piccola grande rivoluzione quella che Ilaria Tabusso Marcyan sta portando avanti alla Miami University, molto conosciuta per la sua Business School, e che ha dato vita ad un circolo fatto di buone prassi che ha coinvolto anche la comunità locale. «Ogni corso ha due partners che cambiano di volta in volta e uno che rimane fisso: è il caso dell’Institute for Food, un progetto interdisciplinare dell’università nato per studiare cibo, alimentazione sana, agricoltura sostenibile e al cui interno si coltivano anche ortaggi biologici. Le altre organizzazioni con cui collaboriamo sono piccole tenute agricole e realtà no profit come il food pantry, il banco alimentare, con cui gli studenti hanno condotto un progetto di educazione nutrizionale e a cui danno una mano nel portare avanti un piccolo orto comunitario. Grazie al banco alimentare, tra l’altro, ho scoperto che nella cittadina in cui opera la Miami - frequentata da studenti da tutto l’Ohio, da Chicago, Detroit e dalla Costa Orientale - il 47% dei suoi abitanti vive sotto la soglia di povertà», spiega la docente. Nelle fattorie locali gli studenti sperimentano la fatica e la conoscenza delle pratiche che compongono il lavoro agricolo: qualche semestre fa, per esempio, hanno costruito alcune arnie per consentire al fattore di ripopolare le api locali e ora, in quel luogo, si produce il miele; in un’altra occasione hanno costruito recinti per le pecore e una serra; a seconda delle stagioni, hanno poi seminato o raccolto gli ortaggi.

«Con l’Institute for Food, invece, il lavoro parte da zero: i ragazzi creano il suolo dove poi piantano piccoli semi e quando le piantine sono cresciute, le riseminano nel campo. Il mio corso ha insegnato loro a conoscere il ciclo della natura, ad armarsi di pazienza e a non temere la fatica fisica: mettere le mani nella terra è una esperienza che li trasforma e trasforma la loro idea di cibo e di economia. Durante la pandemia, quando il corso per forza di cose si è spostato on line, ciascuno studente ha lavorato da casa propria ad un progetto legato alle rispettive comunità: ci sono stati coloro che hanno scelto di fare volontariato nei food pantries della propria zona, quelli che hanno dato una mano a qualche contadino locale e c’è stato chi ha chiesto il permesso ai genitori di costruire dietro casa un piccolo orto partendo dal semplice seme e documentando poi, giorno dopo giorno per mesi, la crescita delle loro preziose piantine».

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