mercoledì 15 dicembre 2021
Una popolazione in declino, con squilibri crescenti nel rapporto tra le generazioni, mina alla base la possibilità di una crescita sostenibile
La crisi demografica è un fenomeno di cui si parla poco

La crisi demografica è un fenomeno di cui si parla poco - Ansa

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Quando si parla di “sostenibilità” si è portati a pensare per prima cosa alla sfida ambientale, a politiche e pratiche capaci di mantenere un rapporto equilibrato tra le attività umane e le risorse naturali. L’esplosione della crisi climatica ha reso l’umanità consapevole del fatto che la possibilità di futuro passa anche dalla riduzione degli “squilibri” ambientali, sociali ed economici. Mentre l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco ha aiutato a riconoscere l’“interdipendenza” che lega ogni essere umano ai suoi simili e a tutti gli esseri viventi. Questo approccio, se talvolta può essere osteggiato per convenienza, è un dato acquisito di questa epoca. Ma c’è un’altra crisi di cui non si parla abbastanza, pur avendo forti analogie con quella ambientale, e le cui cause, come gli effetti, sono strettamente legati all’emergenza climatica: è la crisi demografica.

Se ne discute poco, o quantomeno non come servirebbe, forse perché tanti restano convinti che il problema ecologico derivi sostanzialmente dalla crescita della popolazione, non cogliendo che sono invece gli stili di vita e di consumo delle classi più agiate – peraltro in una dimensione individualista dove non è certo la famiglia il motore degli eccessi – a fare la vera differenza; o forse perché i Paesi in cui gli squilibri della popolazione hanno già superato la linea d’emergenza, come l’Italia, non hanno compreso che lo tsunami della demografia non segue il calendario elettorale, ma ci mette un po’ prima di arrivare e travolgere tutto. Eppure, una popolazione in declino, con squilibri crescenti nel rapporto tra le generazioni, incorpora una serie di elementi che minano alla base la possibilità di uno sviluppo sostenibile in senso ampio. Nel recente saggio del demografo e sociologo dell’Università Cattolica, Alessandro Rosina, Crisi demografica – Politiche per un Paese che ha smesso di crescere ( Vita e Pensiero, 166 pagine, 14 euro), i termini “sostenibilità”, “squilibrio”, “interdipendenza” ricorrono di continuo, quasi a suggerire che il problema della sopravvivenza si pone pure nel momento in cui le generazioni faticano nel sostenersi a vicenda, o perché il “degiovanimento” di una nazione diventa “spreco” e impoverimento del capitale umano, o ancora il desiderio di realizzazione personale e familiare rimane inespresso, rendendo l’aria irrespirabile e la temperatura sociale elevata. «Il problema di fondo è che gli squilibri demografici dovuti al calo delle nascite in Italia, che dura da decenni, ormai non determinano più solo un aumento del numero degli anziani, ma sempre più una riduzione della popolazione attiva – spiega Rosina –. La denatalità ha ridotto prima la popolazione infantile, poi quella giovanile e ora sta trascinando verso il basso anche quella che entra nella vita adulta.

Oggi i trentenni italiani sono già un terzo in meno rispetto ai 50enni. Senza una combinazione di politiche efficaci capaci di incidere veramente su natalità e immigrazione, entro il 2050 la popolazione in età attiva potrebbe ridursi di oltre 8 milioni di persone, mentre gli over-65 saranno ben 4 milioni in più». Il tema dell’invecchiamento non è un’esclusiva italiana, riguarda tutti i Paesi sviluppati. Entro fine secolo, secondo le previsioni di The Lancet, 183 Paesi su 195 avranno una fecondità sotto il tasso di sostituzione e la popolazione mondiale sarà scesa a 8,8 miliardi, dopo il picco dei 9,7 miliardi previsto a metà anni ’60. L’Italia, insomma, è laboratorio del mondo, e sta solo mandando in onda un’anteprima. Saremo il primo Paese del pianeta con un’età media superiore ai 50 anni, eppure non è solo un problema di età. L’Economist già nel 2005 definiva «terribili» le prospettive demografiche italiane e «preoccupanti» le conseguenze economiche per un Paese che presto si sarebbe trovato con tanti pensionati e un numero non sufficiente di lavoratori in grado di “mantenerli”. Aver trascurato il problema per decenni non è stata una buona idea, come fa capire Rosina: «Quello in cui ci troviamo incastrati è un circolo vizioso nel quale sarà sempre più complicato non solo produrre ricchezza e benessere, ma anche avere un sistema di welfare pubblico e un debito sostenibili. Ancora più preoccupante è il fatto che ci saranno grandi difficoltà nell’investire risorse a favore delle nuove generazioni, cioè nella formazione, negli strumenti per la transizione scuola-lavoro e nelle misure per favorire l’autonomia e la costituzione di una propria famiglia. Questo farà sì che sempre più giovani italiani preferiranno spostarsi in Paesi dove sarà possibile fare la differenza nei processi di cambiamento e di sviluppo. E non potrà essere l’immigrazione la risposta a questo problema: una realtà che non offre adeguate condizioni per valorizzare gli “autoctoni” difficilmente riuscirà a essere attrattiva per giovani dinamici e qualificati che vivono all’estero».

In un Paese in cui la fascia anziana della popolazione è molto più numerosa di quella giovane va da sé che la politica, quando a prevalere è uno sguardo di corto respiro, tenda a premiare la componente che può assicurare il migliore ritorno elettorale. Il record italiano di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, uno su tre, può essere visto come conseguenza di una disattenzione storica, soprattutto se messa a confronto con l’ossessione italica per il tema previdenziale. Nel suo libro Rosina conia un termine, “parentari”, che fissa ancora meglio la cronicizzazione del problema: un tempo “proletario” era chi non aveva altra ricchezza al di fuori della prole, oggi i “parentari” sono i giovani la cui unica ricchezza sono i parenti, cioè i genitori che li mantengono o chi può lasciare loro qualcosa. «Ma finché si rimane nella condizione di figli e si dipende dalle risorse private delle generazioni precedenti, difficilmente ci si può immaginare genitori, e così in un Paese si indebolisce la fiducia nel futuro », sostiene Rosina. Nelle ultime Previsioni della popolazione residente e delle famiglie, con base 2020, l’Istat descrive un’Italia che nel 2050 potrebbe avere 5 milioni di abitanti in meno, un’età media della popolazione di 50,7 anni, solo un giovane under-14 ogni tre “anziani” over-65, e un numero annuo di decessi più che doppio rispetto alle nascite.

Ma già entro i prossimi 10 anni l’81% dei comuni italiani sarà in calo demografico ed entro 20 anni ci troveremo con 10 milioni di persone di fatto sole. Molti meno, con molti più vecchi, e molto più soli. Sarà “sostenibile” tutto questo? Il grande equivoco che si cela dietro il declino demografico chiama in causa l’“integralismo ecologico” e tutto quel mondo convinto che meno figli nascono e meglio è per il pianeta. «Dire che siamo in troppi è semplicistico – spiega il demografo della Cattolica – la questione della crescita della popolazione del pianeta è ormai alle spalle, perché con un tasso di fecondità ampiamente sotto i 2 figli per donna verso il quale è orientato tutto il mondo, l’unico effetto che si produce è la riduzione ulteriore della già esigua popolazione giovanile, a fronte di una crescita esuberante di quella anziana». E come questo si traduca in un problema di sostenibilità, anche ambientale, non è difficile da comprendere. «È il concetto stesso di sviluppo sostenibile a mettere al centro il ruolo delle nuove generazioni e la qualità del futuro che queste possono contribuire a realizzare – continua Rosina -. Un Paese che soffre di “degiovanimento” vedrà non solo indebolirsi le competenze qualificate con cui si può alimentare la transizione verde, ma avrà anche maggiori difficoltà nel raggiungere gli obiettivi strategici di sviluppo sostenibile indicati nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite».

Lo sguardo che propone il demografo contempla un concetto di sostenibilità a tutto campo: si tratta di guardare ai tre nodi che comprimono al ribasso la natalità italiana, e provare a scioglierli anche per favorire la realizzazione dell’Agenda. «Il primo nodo riguarda la nascita del primo figlio, questione che si lega con la difficoltà che incontrano i giovani nella transizione scuola-lavoro e nel diventare autonomi dalla famiglia di origine. Attivarsi per scioglierlo è coerente con i Goal 4 e 8: “Fornire una educazione di qualità equa e inclusiva” e “un’occupazione piena e produttiva e un lavoro dignitoso per tutti”. Il secondo nodo critico è la difficoltà ad andare oltre il primo figlio, nel momento in cui in Italia resta problematico armonizzare lavoro e famiglia. Ecco, superare questo limite va nella direzione del Goal 5: “Favorire l’uguaglianza di genere”. Il terzo nodo è l’alta esposizione al rischio di povertà che interessa molti di coloro che hanno più di due figli. Ridurlo va nella direzione dei Goal 1 e 10: “Porre fine ad ogni forma di povertà” e “Ridurre le diseguaglianze sociali”». Le culle vuote sono anche genitori che non sbocciano, spreco di risorse e talenti, sono lo spopolamento delle aree interne e montane, rappresentano in prospettiva un impoverimento, suggerisce il libro, che contempla il rischio di un aumento delle tensioni e delle diseguaglianze tali di rendere più instabile anche il quadro politico. Per Rosina il sentiero è stretto, ma l’obiettivo di una sostenibilità non di corto respiro resta alla portata: «Tutto il dibattito italiano sulla natalità va slegato dal tema della crescita demografica, dato che eventuali variazioni positive nel numero di nascite non sono più in grado di incidere sulla crescita della popolazione, mentre va sempre più legato alle condizioni di uno sviluppo veramente sostenibile con al centro il riconoscimento del valore delle nuove generazioni e le condizioni che consentono loro di generare nuovo valore. Quello che dovremmo fare è riuscire a evolvere verso una visione sistemica della sostenibilità in grado di aiutare l’Italia a trovare il sentiero per ridurre gli squilibri demografici, diminuire il peso debito pubblico, favorire la transizione ecologica».

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