mercoledì 7 aprile 2021
Il progetto "I was a Sari" di Gucci esempio di economia circolare che unisce tradizione e innovazione. L'imprenditore Funari: si può replicare in altri Paesi
La collaborazione tra Gucci e "I was a Sari" ha permesso a un piccolo gruppo di artigiane indiane di recarsi a Roma a lavorare con gli stilisti

La collaborazione tra Gucci e "I was a Sari" ha permesso a un piccolo gruppo di artigiane indiane di recarsi a Roma a lavorare con gli stilisti - Gucci

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Una nuova vita per i sari, i tradizionali coloratissimi abiti indiani, e per tante donne di Mumbai prima escluse dal mondo del lavoro. Un progetto di economia circolare che ha messo in rete materiali riciclati, creatività, formazione sul campo e conoscenze digitali. «I was a Sari» è un brand di moda fondato nel 2013 da un imprenditore brianzolo Stefano Funari che collabora dal 2018 con il marchio Gucci ed ha come obiettivo promuovere l’occupazione femminile in un’area metropolitana estremamente disagiata.

Progetto nato per caso, Funari era manager in una multinazionale di Zurigo prima di trasferirsi in India dieci anni fa, e pluripremiato. L’imprenditore era andato in India pensando di fare impresa sociale dedicandosi ai bambini che vivono negli slum. «Arrivato qui ho realizzato che per aiutare i bambini bisognava prima aiutare le mamme. Un giorno mi sono ritrovato in un deposito di sari usati: c’erano centinaia di vestiti piegati in attesa di essere rivenduti o riutilizzati per fare tappeti o altro. Lì mi è venuta l’illuminazione».

L’idea prende forma grazie alla collaborazione con il dipartimento di design del Politecnico di Milano. Un progetto pilota che dura un paio d’anni, poi nel 2016 la trasformazione in una vera e propria impresa. Il primo step è la formazione di donne povere che vivono nelle baraccopoli della periferia e non hanno mai neanche sognato un lavoro. Dopo una fase di addestramento su taglio e cucito, diventano artigiane in grado di riparare e ammodernare i sari usati, o di trasformarli in borse, magliette e altri accessori.

Sono tre i pilastri su cui si basa «I was a Sari»: l’inclusione sociale, dare lavoro alle donne significa combattere concretamente la povertà, il rispetto dell’ambiente attraverso l’upcycling creativo (il 90% del materiale è riutilizzato ma ci sono anche tessuti donati dalle aziende) e la sostenibilità finanzaria. «La nostra è una società for profit che non distribuisce prodotti ma li reinveste per sostenere altri progetti sociali – spiega Funari –. Abbiamo appena approvato un budget per dare un’assicurazione sanitaria a tutte le famiglie dei nostri collaboratori, l’azienda copre il 75% della polizza il 25% lo detraiamo dalle retribuzioni».

Prima dell’arrivo del Covid erano 200 i lavoratori, adesso sono scesi a 150, per il ritorno ai villaggi di origine di molte artigiane preoccupate per i contagi nella grande città. Ma nel futuro c’è l’idea di esportare l’esperienza, replicando questo modello in altre parti del mondo. «La mia speranza è che possa essere il primo di una serie di "I was...", ad esempio "I was a kimono" con progetti di upcycling che partano dagli abiti tradizionali di ogni paese. Da un po’ di mesi sono in contatto con una giovane designer del Sudan – dove le donne indossano un abito tradizionale che è l’equivalente del sari indiano – che è interessata a replicare il progetto» racconta entusiasta Funari.

Tre anni fa è iniziata la collaborazione con il marchio Gucci, un incontro che ha fatto fare un salto di qualità sul fronte della formazione, con un focus sul ricamo che è un’attività fondamentale per Gucci e viene realizzata quasi totalmente in India. Per la prima volta si sono aperte le porte di questa professione alle donne: in India, contrariamente a quanto avviene in Italia, i ricamatori sono tutti uomini musulmani. Una tradizione radicata nei secoli ma che negli ultimi hanno sta mostrando delle crepe per la fuga dei giovani verso altre professioni. Sono state coinvolte una cinquantina di donne, di tutte le etnie e religioni alle quali è stata la possibilità di lavorare con i ricamifici migliori al mondo, partner di Gucci, e di utilizzare i materiali di scarto industriale della griffe. Questo ha portato ad un progetto di formazione «Now I Can» nel quale è stata condensata l’esperienza degli ultimi due-tre anni sul campo. Un corso digitale completo sul ricamo dalla tecnica agli strumenti con 80 lezioni sulla piattaforma Udemy. «Un corso gratuito perché un’opportunità del genere non deve essere riservata a poche elette. Abbiamo già firmato quattro collaborazioni di cui due con grandi imprese sociali indiane che hanno iniziato ad usare il corso e a formare poi direttamente sul campo delle giovani. L’idea anche in questo caso è di replicare il modello e di far nascere una libreria di corsi di formazione digitali».

Un altro canale di collaborazione è stato attivato attraverso Gucci Changemakers, progetto che consente a tutti i dipendenti dell’azienda di fare quatto giorni di volontariato retribuito in qualsiasi campo. «Le aziende hanno all’interno un potenziale enorme di valore sociale ma la Corporate sociale responsability spesso è vista solo come beneficenza – conclude Funari –. Invece è stato possibile costruire un ponte tra realtà tanto diverse: portare alcune donne indiane nella sede di Roma per lavorare direttamente sulla collezione di moda a fianco degli stilisti e ospitare dei manager di Gucci in India per due settimane».

«"I was a Sari" incarna alcuni dei valori che sono alla base della nostra campagna Chime for Change e della nostra strategia sostenibile, a partire dall’emancipazione femminile. L’obiettivo è permettere a queste donne di acquisire specifiche abilità nel ricamo, assicurando un reddito regolare e quindi indipendenza finanziaria » spiega Antonella Centra, Executive Vice President di Gucci. «La pandemia ci ha aiutato a comprendere l’enorme potenziale dell’apprendimento digitale. Condividere idee ed esperienze, anche se a distanza, ci permette di dar vita a una cultura più inclusiva e più ricca di punti di vista».

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