sabato 30 marzo 2024
La città toscana ha una storia produttiva legata al settore tessile. Le visite agli impianti e nuovi itinerari che includono archivi, mostre e laboratori attirano viaggiatori da tutto il mondo
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C’è una frase che si ripete spesso a Prato, un ritornello che accoglie chiunque metta piede in città: «Le ciminiere sono i nostri campanili». In effetti, alzando gli occhi al cielo, le torri marroni svettano sugli altri edifici. Sono il simbolo di una storia produttiva che permea il territorio attorno a una ricchezza principale: tessuti, tessuti e ancora tessuti. Stoffe colorate, ingegno, competenze che si trasmettono di generazione in generazione, lavoro duro. Il distretto tessile cittadino conta 2.500 aziende e le sue ciminiere, oggi, stanno diventando anche il motivo per cui i turisti arrivano in città.

Prato, quasi 200mila abitanti a venti minuti di treno da Firenze, sta puntando sul turismo industriale, settore in cui si candida a diventare capitale italiana. Lo fa in particolare dal 2021, con l’avvio di “TIPO - Turismo Industriale Prato”, un progetto promosso dal Comune, dalla Fondazione Museo del Tessuto e dalla Fondazione CDSE Centro di Documentazione Storico Etnografica. Obiettivo: portare i turisti alla scoperta del tessile a Prato con itinerari a piedi, visite in fabbrica, incontri con gli imprenditori.

Un’app aiuta i turisti a organizzare autonomamente il proprio percorso, mentre dentro le aziende si arriva grazie ad eventi organizzati direttamente da TIPO, che ha in programma per il 12-14 aprile il TIPO Festival, tre giorni di mostre, laboratori, convegni e concerti nella città toscana. Ad attrarre i turisti è anche la possibilità di capire il processo dietro alla tessitura e quindi dietro ai vestiti, anche ai nostri: gli abiti sono sempre qualcosa che ci riguarda.


La storia di un territorio strettamente connotato dal settore tessile, che conta 2.500 aziende e che ha saputo riconvertirsi

Chi partecipa alle visite di TIPO può sperimentare esperienze molto diverse, come ritrovarsi circondati da centinaia di tessuti, tutti appesi in file ordinate in un enorme archivio. È del Lanificio Ricceri, azienda nata nel 1848 e ancora oggi gestita dalla famiglia fondatrice. I clienti sono i marchi di lusso, che arrivano in quell’archivio per scegliere i tessuti per le nuove collezioni. Altre visite portano alla Cernita Francioni dove si entra in un’altra dimensione, legata al mestiere dei cenciaioli, fondamentali per il distretto tessile.

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I “cenci” a Prato sono i vecchi abiti usati, raccolti in mucchi alti fino al soffitto, che via via vengono ordinati grazie alla competenze di chi, seduto a terra, sa riconoscere i tessuti semplicemente toccandoli con le mani. I cenciaioli strappano le cuciture e smistano per tipologia di tessuto, colore. Gli stracci così ottenuti da scarti industriali e vecchi vestiti vengono inviati ad altre attività, che li rigenerano e trasformano in fibre tessili riciclate, con un riuso delle materie che a Prato si fa da decenni. Il risultato finale si può vedere ad esempio a Rifò, azienda che realizza capi a partire esclusivamente da fibre riciclate. Una realtà giovane e, come spiega Chiara Cipriano, designer, questa è una particolarità. «In questa città le generazioni del dopoguerra si sono spaccate la schiena per produrre i tessuti, si lavorava così tanto che spesso si è parlato di auto-sfruttamento. Le persone si sono arricchite, ma ovviamente per i loro figli hanno desiderato un futuro diverso, i giovani sono andati via o si sono dedicati ad altro. Il problema è che si stanno perdendo competenze tessili di altissimo livello. Negli ultimi tempi le cose stanno cambiando, ci sono giovani che riscoprono la cultura produttiva pratese e decidono di rimanere. Con orari di lavoro più sostenibili rispetto al passato».

Ma il “nuovo”, a Prato, non vuole cancellare il “vecchio” e ciò che unisce è ancora una volta il lavoro. Anche luoghi che mantengono la memoria produttiva del territorio entrano negli itinerari di TIPO, come il Cavalciotto di Santa Lucia sul fiume Bisenzio, cruciale per il sistema idrico della città; o la Gualchiera di Coiano, antico opificio che conserva intatti i suoi macchinari, tenuto in vita da un’associazione di cittadini “Insieme per la Gualchiera di Coiano”. E poi ci sono gli edifici industriali trasformati in altro: il Museo del tessuto e la biblioteca di Prato, ad esempio, sono in una ex cimatoria.

Chiaramente, chi arriva in città non può non interrogarsi anche sulle sfide del territorio. A Prato convivono 121 nazionalità diverse, attratte soprattutto dalla possibilità di lavorare, e una comunità cinese tra le più numerose in Europa come rapporto rispetto al numero di abitanti della città.

Le attività cinesi di pronto moda si concentrano in uno dei due macrolotti produttivi, dove arrivano camion da tutta Europa per caricare capi di fast fashion. L’integrazione è una sfida, così come i controlli nei macrolotti, dove il rischio sfruttamento c’è. In questo senso la città è un laboratorio dove si prova a cercare soluzioni, magari poi utili anche altrove. «Non è facile, ma le sfide sono anche opportunità» dice il sindaco di Prato, Matteo Biffoni. Per tanti anni la città è stata raccontata solo come «dell’immigrazione» e «dei capannoni», fino a che l’amministrazione non si è chiesta: «Che cosa possiamo ancora dire del nostro territorio, che abbiamo solo noi, di prezioso?». L’idea del turismo industriale è nata proprio da questa domanda, come spiega ancora Biffoni. «La nostra città ha un’offerta culturale interessante, ma al pari di altre città toscane, quindi non sufficiente per attrarre i turisti. Il tessuto, invece, è una cosa davvero nostra. Lo facciamo da sempre, anche Malaparte scriveva che tutta la storia d’Italia e d’Europa va a finire a Prato, con gli stracci».

«Abbiamo capito che i nostri distretti produttivi potevano diventare l’occasione per venire in città – aggiunge Gabriele Bosi, assessore al Turismo –. Altrove magari si fa un turismo industriale orientato al passato, è difficile poter entrare dentro una fabbrica, qui invece è possibile». Il turismo industriale può essere un modello anche per altre città? «Dipende dalle peculiarità del territorio ma di base sì, tante nostre esperienze possono essere un esempio, anche per la riconversione di edifici dismessi».

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