mercoledì 16 giugno 2021
Lo psicologo americano insieme ai colleghi Csikszentmihalyi e Damon, conduce ricerche e analisi su cosa rende significativo e importante il proprio lavoro da 25 anni
Lo psicologo Howard Gardner, docente di educazione ad Harvard

Lo psicologo Howard Gardner, docente di educazione ad Harvard

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Una pediatra in pensione ha il dovere morale di segnalare alle autorità i lividi frequenti di un piccolo vicino di casa? Un insegnante ha il diritto di pubblicare su Internet la foto di un collega che manifesta nelle fila di un gruppo estremista? Un avvocato difensore ha l’obbligo etico di accettare i casi di persone bisognose accusate di crimini ripugnanti? Una studentessa di origine messicana ha il diritto di nascondere le sue origini nelle domande di ammissione all’università, temendo di essere discriminata? Nel mondo dell’automazione, della gig economy e persino dell’intelligenza artificiale, il contesto professionale e accademico può cambiare rapidamente, ma avere un compasso che indichi come comportarsi in situazioni difficili resta fondamentale. Anzi, secondo lo psicologo Howard Gardner, docente di educazione ad Harvard, diventa sempre più importante. «Oggi ci si può aspettare di cambiare lavoro o addirittura carriera più volte, le vecchie professioni scompaiono e ne stanno emergendo di nuove. E l’importanza di svolgere un buon lavoro è più grande che mai». Ma definire che cosa costituisce un 'buon lavoro' è tutt’altro che banale. Gardner, insieme ai colleghi Mihaly Csikszentmihalyi e William Damon, conduce ricerche e analisi sullo stesso concetto da almeno 25 anni, producendo risorse che pubblica sul sito 'The good project'. I tre hanno cominciato a interrogarsi nel 1996 su come aiutare gli americani, e non solo, a dare più senso al loro lavoro, l’attività alla quale dedicano la maggior parte della vita adulta. Un senso morale e qualitativo che abbia valore per gli individui, la loro comunità e la società tutta. Quell’anno, collaborando insieme al Centro per le scienze del comportamento dell’Università di Stanford, i tre psicologi hanno fondato 'The humane creativity project', più tardi diventato 'The good project'. L’obiettivo si è definito nel corso del tempo, coagulandosi attorno allo sforzo di rendere più concrete le idee spesso elusive di collaborazione efficace, cittadinanza responsabile e partecipazione civica, il tutto dando ai singoli la certezza che stanno usando bene capacità e tempo.

Ecco come si spiegano i dilemmi morali descritti qui sopra. Sono alcune delle decine di casi che 'The good project' propone ai suoi lettori, illustrandoli nel dettaglio. Il sito non fornisce soluzioni, ma presenta piste di riflessione su come arrivare a una risposta e punti di vista alternativi. «Non enfatizziamo una prospettiva etica rispetto ad altre – continua Gardner –. Invece, poniamo dilemmi agli individui e li aiutiamo a definirli, discuterli, dibatterli e a prendere una decisione e poi riflettere sulla decisione ». Allo stesso tempo, The good project non propone un cammino del tutto relativo, un percorso morale alla cieca. Tre valori guidano infatti sempre le riflessioni, aiutando i suoi utenti ad orientarsi: l’eccellenza (un 'buon lavoro' deve essere eccellente, vale a dire di buona qualità); l’etica (il lavoratore deve preoccuparsi di quello che fa e delle sue conseguenze) e l’impegno. Valori che, spiega Gardner, sono emersi da uno «studio decennale sui lavoratori in nove diverse professioni negli Stati Uniti e in altri Paesi» le cui conclusioni lo psicologo riassume così: «Fare un buon lavoro vuol dire fare qualcosa in modo nuovo, qualcosa che sia etico e che contribuisca in modo positivo alla condizione umana».

Attraverso risorse basate sulla ricerca, 'The good project' si sforza allora di fornire agli individui gli strumenti per riflettere sui problemi etici che sorgono nella vita quotidiana fornendo loro gli strumenti per prendere decisioni ponderate. Questi materiali sono utilizzati principalmente nelle scuole, dalle medie alle università, nell’intento di preparare i giovani a vedere il loro lavoro sotto il prisma delle tre E (Excellent, Ethical, Engaging). Gli insegnanti li usano, illustra sempre Gardner, come parte del programma di base o come mezzi per affrontare una qualsiasi crisi. Ma i materiali sono stati utilizzati anche in altri contesti, dalle facoltà di legge ai servizi governativi. E hanno attinto a tutti i tipi di dati, comprese le indagini di diverse migliaia di individui provenienti da sette Paesi. I suoi autori ammettono che è difficile documentare i cambiamenti che 'The good project' ha apportato finora sui posti di lavoro o nelle classi, ma il gruppo di ricerca sa che il materiale funziona, a giudicare dalla sempre maggiore domanda di utilizzarli per condurre conversazioni sul 'good work' nelle aule come negli uffici. Gardner e colleghi conducono inoltre studi sulle persone che seguono la loro formazione e sanno che sono più propense a leggere i giornali e a riflettere sulle questioni del giorno. Il progetto si è ramificato in altre direzioni, come quella di fare da guida alla partecipazione civica, alla vita familiare (il Family dinner project) e all’uso dei media digitali tra i giovani. Ad aprile, per esempio, 'The good project' ha discusso il processo di Derek Chauvin per l’uccisione di George Floyd, si è chiesto se un giornalista debba nascondere o rivelare le sue tendenze politiche e ha proposto al suo pubblico una serie di domande da porre alle autorità, a qualsiasi livello, per «partecipare in modo più efficace alle decisioni che li toccano da vicino». Tutte attività che sono sfociate anche in un libro dei tre autori sul 'Good Work', tradotto in 10 lingue e in un corso postuniversitario insegnato dallo stesso Gardner ad Harvard. Che, ancora una volta, fornisce agli studenti un compasso da usare per tutta la vita, quello del 'Good work', vale a dire, «quando eccellenza, impegno ed etica si intrecciano».

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