mercoledì 10 maggio 2023
Difficile partecipare a cure sperimentali quando si deve badare alla famiglia. Nelle Marche l’esperienza di una prima “Care house”
Il consiglio direttivo di Women for Oncology ospite a Montecitorio: la presidente Rossella Berardi è la terza da sinistra

Il consiglio direttivo di Women for Oncology ospite a Montecitorio: la presidente Rossella Berardi è la terza da sinistra

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In Italia su cento persone che accedono a cure oncologiche sperimentali, solo trenta sono donne. Questa diversità di trattamento medico, che può essere decisivo per il miglioramento dei pazienti, è anch’essa una delle conseguenza della disparità di genere che continua a pervadere le nostre dinamiche sociali. La denuncia arriva da Women For Oncology Italy, l’associazione nata da una costola di Esmo (European Society for Medical Oncology) che da anni si batte per le pari opportunità in oncologia e che ha presentato la ricerca in un incontro organizzata a Montecitorio con i vertici della sanità italiana. « La donna è il perno della famiglia, il caregiver che si prende cura degli altri. Se si ammala, è più complesso trovare qualcuno che si prende cura di lei», spiega Rossana Berardi, presidente di W4O Italy e ordinaria di Oncologia all’Università Politecnica delle Marche. Tale disparità di genere si riscontra in altri Paesi europei e negli Stati Uniti ed è una dinamica che si replica anche in altri contesti di cure sperimentali, non solo oncologiche. Terapie che prevedono più controlli, più visite di laboratorio, più tac, affinché si arrivi a individuare il farmaco innovativo adatto, la cura di precisione che vada a migliorare il quadro clinico della paziente. Le opportunità possono essere plurime per le malate, soprattutto quando si usano farmaci già sperimentati e testati in altri percorsi terapeutici. E per chi ha già affrontato trattamenti standard, la sperimentazione può divenire una strada cruciale da intraprendere.

Nel mondo sono 22mila i pazienti che ogni anno ricorrono a cure sperimentali oncologiche. In Italia le terapie sperimentali registrate da Aifa nel 2022 sono state quasi 700, più della metà sono in oncologia, il 20% delle sperimentazioni in ambito oncologico europeo. In Italia i centri di ricerca sui tumori sono 149 (dato Aiom), distribuiti nel territorio anche in modo disomogeneo. E per chi non vive nei pressi di questi istituti, effettuare i frequenti monitoraggi richiesti è impegnativo. C’è strada da fare, anche lunghissima, se si vive in una città lontana. I sacrifici logistici sono superiori rispetto a quelli richiesti coi normali centri oncologici, più di prossimità e flessibili nella presa in cura. Molte donne rinunciano o interrompono le terapie perché l’eventualità di entrare in un percorso simile sembra irraggiungibile, soprattutto quando il contesto socio-familiare non lo consente. Ci sono i figli o gli anziani da accudire a casa, «come accaduto a una giovane mamma che avevo in cura con un tumore al seno – racconta la professoressa Rossana Berardi –. Le abbiamo proposto una terapia con un farmaco in fase avanzata di sperimentazione dagli effetti postivi già testati. Ma la donna ha dovuto rifiutare perché non poteva percorrere 80 chilometri avanti e indietro dal centro. Ultimamente l’ho sentita. Era molto pensierosa, si domandava se la sua scelta fosse stata giusta».

Per consentire alle donne di partecipare alle cure oncologiche nella stessa misura degli uomini la soluzione dovrebbe essere non di ordine medico, ma politico, si dovrebbe guardare al potenziamento del welfare sociale, con la possibilità di prevedere trasporti, di garantire il sostegno ai figli, di prevedere case di accoglienza dove alloggiare nel pre e post cura. D’intesa con l’Azienda Ospedaliero Universitaria delle Marche, dove la professoressa Berardi dirige la Clinica Oncologica, nel 2021 è stato aperto “Casale Angelini”, la prima “Care house” in Italia che Fondazione Angelini ha messo a disposizione per ospitare malati oncologici in cura e famiglie. È un esempio virtuoso di come l’accoglienza per i malati sia una strada percorribile. C’è un tema poi che sta emergendo prepotentemente in ambito scientifico negli ultimi anni, quello delle differenze biologiche di genere, trascurate fino ad oggi dall’impostazione troppo antropocentrica della medicina, tarata sul prototipo maschile, mentre per le donne ci si è concentrati soprattutto sull’ambito riproduttivo. « La necessità di colmare il gap e approfondire la tematica è importante perché una terapia o la sua tossicità può trovare risposte diverse tra uomo e donna, come è stato evidenziato. Ma gli studi solo ora iniziano a tenere conto dei diversi profili biomolecolari o ormonali», aggiunge la professoressa Berardi.

In questo senso l’aspetto sociale s’intreccia con quello sanitario. Il diritto delle donne di poter accedere a cure oncologiche sperimentali, oltre ad aprire alla possibilità di un miglioramento della paziente, allarga anche il campo della ricerca scientifica per il genere biologico femminile. «Occorre concentrarsi sulla differenza di genere, per avere maggiore consapevolezza e informazioni scientifiche. Con l’Associazione Italiana Oncologia Medica stiamo stilando ora le prime raccomandazioni in questo senso, in 50 anni di attività». Un ritardo imputabile, viene da pensare, a un altro tipo di mancanza di pari opportunità: le donne che in ambito medico coprono un ruolo apicale sono nettamente inferiori agli uomini. «Circa il 18% in oncologia ha raggiunto la posizione di direttore di struttura, la stessa percentuale si ritrova in altri ambiti sanitari – denuncia ancora Women for Oncology Italy –. In ambito universitario le ordinarie in oncologia non raggiungono il 10% del totale. Sono dati ufficiali che fanno riflettere, ancora più perché il 60% delle iscritte a Medicina è donna e dunque solo una su dieci o meno raggiunge un ruolo apicale universitario e due su dieci ospedaliero». I più ottimisti parlano di 150 anni per bilanciare questo squilibrio e l’associazione W4O nell’incontro a Montecitorio ha lanciato la proposta di prevedere un meccanismo premiante che favorisca la progressione in carriera indipendentemente dal genere. Tutto è collegato, perché una maggiore presenza femminile tra i dirigenti medici può significare un’ulteriore attenzione scientifica ai temi biologici di genere e al contempo una diversa sensibilità ai bisogni e ai diritti delle donne in campo socio sanitario.

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