mercoledì 12 ottobre 2022
José Manuel Naredo, economista e statistico: occorre frenare l’affanno di accumulo di denaro, potere e consumi che legittimano l’approccio economico ordinario
Un momento dell'ultima edizione di The Economy of Francesco ad Assisi

Un momento dell'ultima edizione di The Economy of Francesco ad Assisi

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di Paola Del Vecchio «L’Economia di Francesco segna il cammino per riorientare l’attuale crisi di civiltà verso orizzonti ecologici e sociali più salutari per la maggioranza delle persone. Questa riconversione esige di frenare l’affanno di accumulo di denaro, potere e consumi eccentrici che legittimano l’approccio economico ordinario». José Manuel Naredo, economista e statistico, è uno dei pionieri dell’economia ecologica, autore di decine di saggi. E di metodologie come quella che permette di quantificare, in unità di energia, il costo di ripristino del deterioramento che il processo economico infligge alla base delle risorse planetarie. Metodo che rende possibile stabilire il tracciamento aggregato anche nell’idrosfera e nell’atmosfera. Nel suo ultimo libro «La critica esaurita: chiavi per un cambiamento di civiltà» (Ed. Siglo XXI), Naredo analizza obiettivi e diversivi che, intesi come «nonconcetti », hanno popolato il discorso economico, politico ed ecologico, contribuendo al mantenimento di idee incontestabili, relazioni sociali e istituzioni chiave per perpetuare lo status quo. «L’attuale impasse sociopolitico – osserva – poggia su una serie di termini feticci e su una retorica politica, economica ed ecologica, che distrae le persone, deviando l’attenzione dai principali problemi e dalle possibili soluzioni».

Professore Naredo, questa narrativa in cosa si traduce sul piano sociale ed ecologico? Su quello sociale, in un sistema che incentiva l’egoismo, l’avarizia, l’avidità, la rivalità, la concorrenza, la diffidenza e la paura. Un brodo di coltura perché prosperi il clientelismo e la tirannia corporativa globalizzata, per quanti «contrappesi» formali si stabiliscano. E, sul piano ecologico, in un sistema che valuta le cose per il mero costo di estrazione e non di ripristino delle risorse, incentiva l’estrattivismo e la distruzione dell’ambiente.

Perché gli «pseudoconcetti» che lei cita, come la retorica dello «sviluppo sostenibile» e lo stesso termine «ambiente», esauriscono il discorso ecologista e contribuiscono a preservare lo stato delle cose? Lo status quo difeso dall’ideologia dominante ignora le critiche e, quando riescono a trascendere, cerca di assorbirle o disattivarle. Basti pensare al conflitto fra conservazionisti e sostenitori dello sviluppo, che si impose 50 anni fa sull’onda del movimento ecologista. Il primo Rapporto del Club di Roma sui limiti della crescita economica, nel 1972, mise alle corde l’obiettivo generalizzato della crescita economica, evidenziando l’impossibilità di prolungare in maniera indefinita la crescente esigenza di risorse e generazione di rifiuti della civiltà industriale. Ma si tentò di risolverlo innalzando il vessillo dello «sviluppo sostenibile», per tendere un ponte virtuale fra conservazionisti e fautori dello sviluppo, disattivando la protesta ecologista. È una pratica abituale della manipolazione del linguaggio e del pensiero, al servizio del potere, per evitare le contraddizioni unificando gli opposti sul terreno delle parole.

Parole che quindi si svuotano di contenuti? Quel rapporto da una parte cercò di negare il nesso causale fra sviluppo economico e degrado ecologico, che era evidente. E a tal fine enfatizzò che i Paesi sviluppati avevano più mezzi da investire nella cura dell’ambiente. Dall’altra parte furono create amministrazioni «ambientali», ministeri, agenzie, incaricati di vegliare su un bene diffuso, su cui però non avevano competenze. Condannandole così a un «calvario» permanente, perché «l’ambiente» o la «sostenibilità» sono condizionati dagli ecosistemi agrari, industriali o urbani, con le loro esigenze di trasporto, di estrazione e di scarichi che sono competenze di altre gestioni. Si genera così una schizofrenia fra l’alluvione di amministrazioni, i «summit» ed eventi teoricamente orientati alla cura della casa comune e le pratiche, che continuano a produrre degrado e polarizzazione sociale.

L’impasse socio-politico frustra l’aspirazione al cambio dei movimenti sociali e sembra condannarli al fallimento… Il cambiamento che sembrava plausibile agli inizi dei Settanta, si è andato dissipando. Il fatto che sia trascorso mezzo secolo senza che gli sforzi militanti abbiano raggiunto i propri obiettivi mi ha fatto pensare al mito di Sisifo, condannato dagli dei a spingere sul monte un grande masso, che però una volta in cima rotola giù, costringendolo a ricominciare daccapo, per l’eternità. Per questo è l’immagine di copertina del libro in cui analizzo le cause per le quali la grande pietra del cambio sia scivolata più in basso. Ma anche i requisiti per riorientare l’attuale crisi di civiltà verso orizzonti ecologici e sociali più promettenti, incluso in chiave di governo del territorio.

In che misura crede che l’Economia di Francesco possa contribuire a una nuova transizione ecosociale, avere un impatto nella costruzione di un nuovo paradigma di civiltà che «emancipi gli esseri umani e restituisca dignità alla natura»? L’economia di Francesco indica la strada. Perché la riconversione si apra a un orizzonte più sostenibile, è necessario che poggi sulla cooperazione e la simbiosi della specie umana con l’intorno, propiziando l’amicizia, la solidarietà, il distacco dal consumo, la fiducia, la libertà, la reciprocità, l’amore. Si deve trasformare l’attuale scontro in cooperazione, in rispetto fra esseri umani e tra questi e gli altri esseri della biosfera, con una vita più semplice e piena. Seguendo il messaggio e l’esempio di Francesco.

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