mercoledì 23 marzo 2022
Silvio Garattini, oncologo e farmacologo propone una strategia graduale per avere un sistema di protezione della proprietà intellettuale che sleghi il profitto dalla salute
Silvio Garattini, oncologo e farmacologo

Silvio Garattini, oncologo e farmacologo - Imagoeconomica

COMMENTA E CONDIVIDI

di Paolo Viana Il Pnrr rischia di essere una «occasione persa» per la sanità italiana, l’attenzione per la ricerca è «minima» e l’emergenza Covid 19 ci dice che «il sistema dei brevetti va superato». Sessantaquattro anni dopo quel viaggio in America che gli ispirò la fondazione di un istituto di ricerca non profit, a 93 anni, il famoso oncologo e farmacologo bergamasco Silvio Garattini propone in questa intervista «una strategia graduale per ottenere un sistema di protezione della proprietà intellettuale che risponda meglio alle esigenze dei malati». Senza farsi soverchie illusioni, anche se il pre-accordo raggiunto da Unione europea, Usa, India e Sudafrica – da ratificare in sede Wto a giugno – per la sospensione parziale dei brevetti sui vaccini anti Covid va in questa direzione: «Ormai ho un certo chilometraggio – dice – e non sono così ingenuo da pensare che si possa fare tutto e subito; ma a questo Paese serve una rivoluzione culturale che sleghi il profitto dalla salute». Tradotto: ci vuole soprattutto una ricerca indipendente che produca vaccini e farmaci accessibili a tutti e una sanità davvero universale.

Iniziamo dalla fine. Per uscire definitivamente dalla pandemia bisognerebbe vaccinare i popoli più poveri. Come si fa? Qualche settimana fa abbiamo saputo che esiste un vaccino efficace e libero da brevetti, il Corbevax statunitense. È un prodotto relativamente tradizionale, che non ha bisogno della catena del freddo; insomma, sarebbe l’ideale per i Paesi a basso reddito. Ma averlo non basta, bisogna produrlo in miliardi di dosi e disporre delle strutture per somministrarlo. Eppure, dobbiamo premere perché ciò avvenga: vaccinare i poveri è un atto di sano egoismo, non di solidarietà, che farà risparmiare miliardi di Pil, spegnendo una pandemia che, diversamente dalla Spagnola, non si fermerà da sola: il virus muta e la mobilità globale delle persone è una variabile che cent’anni fa non esisteva e che ci complica le cose.

Da tempo lei combatte contro i brevetti farmaceutici e nel libro 'Brevettare la salute?' (scritto con Caterina Visco, il Mulino) afferma che è il monopolio di questi dispositivi a prolungare la pandemia. Perché ne è così convinto? Facciamo un passo indietro. La brevettabilità dei prodotti farmaceutici in Italia è stata introdotta nel 1978 e in quel contesto - il contesto in cui si prendono le decisioni politiche è importante - funzionò, perché serviva una leva per sviluppare una ricerca e un’industria farmaceutica nazionale. Ma, come dice la Costituzione - si leggano a questo proposito gli articoli 3 e 32 -, il brevetto sulla salute è accettabile quando 'serve' la salute e non il mercato, come invece avviene oggi, in un contesto completamente diverso.

In che senso è diverso? Innanzi tutto in senso industriale. Mentre allora il brevetto serviva a sviluppare la ricerca, oggi le aziende non investono in scienza ma in start up: comprano formule e tecnologie a peso d’oro e ricaricano i costi sul malato. La ricerca non si fa più qui – quindi è fallita la 'riforma' del ’78 – ma nei Paesi in cui l’innovazione viene realmente finanziata. Noi spendiamo per la ricerca solo l’1,2% mentre la Germania il 3,5 del Pil. Siamo 20 miliardi indietro ai francesi…

Con quali conseguenze sul malato? Facciamo l’esempio del sofosbuvir, un farmaco che cura l’epatite C (HCV). Per svilupparlo Pharmaset spese 200 milioni di dollari, con un grosso finanziamento pubblico. Per averlo, Gilead comprò Pharmaset per 10 miliardi, cui dovette aggiungerne uno per svilupparlo. Il costo del farmaco crebbe vertiginosamente e a causa del prezzo finale negli Usa ci sono ancora tra 2,5 e 4,7 milioni di persone che non possono curare l’epatite C e anche in Italia l’utilizzo del farmaco è limitato. L’India ha respinto il brevetto e autorizzato la produzione di equivalenti generici che si pagano 500 euro invece di 47.000 a ciclo.

Con il Pnrr pioveranno miliardi. È l’occasione per cambiare? Purtroppo, se l’impostazione resterà quella che vedo, cioè quella di una sanità edile, cambierà poco e sarà un’occasione persa. Anche quest’enfasi posta sulla digitalizzazione nasconde un problema grosso: stiamo digitalizzando la vecchia sanità, congelandone i problemi. Mi piace l’impegno per migliorare la medicina del territorio ma avremmo bisogno di una rivoluzione culturale che rimettesse la prevenzione al primo posto; la prevenzione però sembra essere contro il mercato, visto che il 50% delle malattie croniche sono evitabili e lo è il 70% dei tumori, eppure muoiono in 180mila solo in Italia… Non basta digitalizzare la sanità se prima non se ne chiarisce il ruolo: vogliamo prevenire le malattie o aspettare che tanti si ammalino per curarne di più? Il fatto stesso che il governo non abbia pensato a creare una scuola superiore di sanità pubblica mi lascia perplesso: oggi i dirigenti di questo settore non li forma nessuno, quanto meno non li formiamo ad applicare la legge 833, che vorrebbe una sanità universale, equa e gratuita.

Invece, investiamo poco in ricerca e paghiamo molto le medicine. Quanto costa un brevetto al consumatore finale? Il prezzo di un farmaco è ancora un mistero ma la ricerca non è la componente principale: qualcuno ha calcolato che il suo peso sul fatturato mondiale dell’industria farmaceutica oscilla tra il 7 e il 10 per cento. Aggiungo che il prezzo dev’essere messo in relazione con l’innovazione contenuta nel prodotto. Oggi, per autorizzare un farmaco, l’Ema ne valuta qualità, efficacia e sicurezza, ma si dovrebbe anche valutare il 'valore terapeutico aggiunto': se si autorizzasse solo ciò che funziona di più contro una patologia, molti farmaci sparirebbero perché si investirebbe solo in ciò che realmente fa la differenza. Ammettiamolo: si sta brevettando di tutto, si sta brevettando troppo.

Si può aggirare il muro dei brevetti? A volte, le società farmaceutiche si vedono costrette a concedere licenze volontarie che consentono la produzione e la vendita di equivalenti generici. Nel caso del sofosbuvir, l’Italia avrebbe potuto imporre la licenza obbligatoria. Diversi Paesi hanno delle normative che permettono la produzione di farmaci fuori brevetto: la dichiarazione di Doha del 2001 regola questa possibilità e una modifica dell’accordo Trips ha previsto nel 2005 la possibilità di esportarli. Questa licenza è spesso frutto di accordi di comarketing: Moderna l’ha concessa a Lonza per il vaccino contro Covid 19. Per fermare l’Aids in Africa è stato creato un bacino di brevetti di farmaci messi a dispisizione dalle aziende in cambio di royalties concordate. Vorrei ricordare che questo meccanismo delle licenze non dev’essere inteso in modo punitivo: le aziende non vanno danneggiate e non si può chiedere loro di fare beneficienza, ma si può sospenderne i diritti temporaneamente per una necessità di salute pubblica.

Mercato versus salute? Bisogna decidere se dev’esser il mercato a dettare le regole della sanità o l’interesse degli ammalati. Peraltro, il mercato, quando entra in contatto con il Sistema Sanitario Nazionale, dimostra la difficoltà a servire l’interesse del malato. Mentre sul mercato scegli, paghi e usi, nel sistema di salute pubblica chi paga è lo Stato che non sceglie e non usa, chi sceglie è il medico che non paga e non usa e chi usa è il paziente che non paga e non sceglie. Per questo, il mercato cerca di condizionare il medico, che purtroppo, come abbiamo detto, riceve informazioni sull’efficacia dei farmaci solo dall’industria.

Questa è la ragione per cui vorrebbe vietare il brevetto dei marchi? Vorrei che il Servizio Sanitario Nazionale esercitasse un potere che ha, per operare una semplificazione del mercato, vietando l’uso dei marchi nelle prescrizioni: se si tornasse a indicare il nome del principio attivo la gente capirebbe che i farmaci creati con la stessa sostanza sono uguali non si capisce perché solo da noi si ricorra così poco ai farmaci generici, che sono identici a quelli più noti, ma meno costosi per chi li acquista - e i medici tornerebbero a prescrivere medicinali seguendo le regole della scienza e non quelle della pubblicità. Non dimentichiamo che oggi non esiste un’informazione medica indipendente, in quanto solo l’industria è in grado di raggiungere il professionista della salute per illustrargli l’efficacia dei farmaci sulle patologie attraverso dati e indicazioni che, fatalmente, rifletteranno anche interessi com- merciali. L’efficacia che viene valutata in sede di approvazione di un farmaco non dev’essere più un concetto così ambiguo. La rivista indipendente Prescrire International ha scritto che il 70% dei farmaci approvati negli ultimi dieci anni nel mondo non presenta alcun vantaggio rispetto a quelli già commercializzati.

Non esiste un’informazione medico scientifica indipendente, ma esiste una ricerca farmaceutica indipendente? Potrei rispondere che l’Istituto Mario Negri fa esattamente questo, ma la realtà globale è un’altra. L’industria farmaceutica è di fatto l’unico soggetto che fa ricerca, o per meglio dire che investe nella ricerca di nuovi farmaci. Dobbiamo uscire da questo schema senza demonizzare nessuno ma promuovendo una imprenditorialità no profit, senza la quale non riusciremo a realizzare il principio costituzionale che la salute è un diritto di tutti. Prova ne sia che nessuno investe sulle malattie rare e pochi investono sull’Alzheimer. Lo Stato dovrebbe finanziare la ricerca e la produzione di farmaci innovativi a partire dalle aree di ricerca che non attraggono investimenti perchè non generano profitti.

Si dice che senza brevetti non ci sarebbe innovazione… C’è una forte ambiguità sull’innovazione farmaceutica. Innanzitutto, per effetto della tendenza a brevettare troppo, lievitano i prezzi eppure non è detto che un nuovo farmaco debba costare di più, così come non si comprende perché, se introduco un farmaco che realmente fa la differenza, non tolgo l’autorizzazione a quello che cura di meno. In un sistema economico maturo, poi, il prezzo della medicina dovrebbe calare in base all’affermazione sul mercato, il che non accade. Ma torniamo allo slogan 'senza brevetti non c’è innovazione'. Ecco, quello è davvero uno slogan. Non tiene conto che esistono incentivi pubblici e che esiste – e dovrebbe essere promossa di più – una ricerca indipendente. Un’analisi di Giovanni Dosi sui farmaci autorizzati dalla FDA dimostra che la qualità dei brevetti è di basso livello innovativo e diminuisce nel tempo, i brevetti si concentrano su pochi prodotti e le nuove classi di farmaci sono relativamente poche. La proprietà intellettuale non è quindi un incentivo all’innovazione ma una barriera legale per proteggere dei monopoli che pesano sulla salute e che spesso sono stati costruiti con i soldi pubblici.

Cioè l’industria brevetta conoscenze che sono di tutti? Il vaccino Astrazeneca è venduto a un prezzo concordato perché è stato finanziato per il 97% con fondi pubblici, ma non è certo l’unico caso; ormai solo una minima percentuale dei farmaci brevettati e commercializzati da un’industria viene svuluppata completamente in house: vale per molti prodotti di Pfizer e Johnson & Johnson. Quali correttivi imporrebbe al sistema dei brevetti farmaceutici? Andrebbero modificate tante cose, dai processi che risentono troppo del mercato al tema del valore terapeutico aggiunto, in sede di approvazione del brevetto da parte delle autorità regolatorie. Bisognerebbe impedire assolutamente la brevettabilità di prodotti che contengano sequenze di Dna umano e impedire di brevettare nuovamente farmaci già sul mercato, come avviene quando si scopre per quel farmaco una nuova indicazione terapeutica. Ma soprattutto consiglierei di condizionare l’approvazione dei brevetti a studi clinici indipendenti, visto che oggi non è così.

Cosa sogna Garattini? Un brevetto senza marchi, che si basi su una reale innovazione rispetto all’esistente per la stessa indicazione, che richieda lo studio delle differenze di genere e di età e la presenza di studi indipendenti, di durata limitata sulla base dei volumi di vendita, dell’entità del profitto, del rapporto beneficio-rischio. Sogno un mondo senza brevetti, certo, perché vorrei una medicina senza mercato, ma nell’interesse degli ammalati.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: