lunedì 20 marzo 2023
Ai tempi della Stern Review si riteneva che fosse sufficiente limitare la crescita delle temperature a +2°. Oggi è condiviso dagli scienziati che la soglia di (relativa) sicurezza sia +1,5°
Il principio di prudenza e l’urgenza di agire: il rischio di sforare il 2050

ANSA

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Il 16 dicembre 2022 è stata conferita la laurea honoris causa in Scienze bancarie, finanziare e assicurative, presso l’Università Cattolica di Milano, a Lord Nicholas Stern per i suoi contributi scientifici e il valore etico della sua attività per la causa del contenimento dei cambiamenti climatici, a partire dalla Review on the Economics of Climate Change (2006, divenuta nota semplicemente come Stern Review), che ha aperto una nuova strada nel modo con cui la politica e l’opinione pubblica guardano ai problemi del riscaldamento globale.

La lectio era significativamente intitolata: «Verso un nuovo approccio allo sviluppo e alla crescita: l’economia delle azioni per [contrastare] il cambiamento climatico». In effetti, Stern non ha voluto solo invocare la necessità e l’urgenza di agire per evitare i rischi (potenzialmente catastrofici) legati a un aumento delle temperature medie superiore a 1,5° entro questo secolo rispetto alla fine del XIX secolo (siamo già a +1,1°, probabilmente la temperatura più alta dell’Olocene). Ha detto anche come quelle azioni necessarie e urgenti possono dar vita a una nuova fase di sviluppo per i Paesi oggi più poveri e una nuova e più sostenibile crescita economica per tutto il mondo.

A ogni successivo rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) lo stato, le tendenze e le conseguenze del cambiamento climatico divengono più precisi e più preoccupanti. Il sesto rapporto (del 2021) ha sottolineato che, con le attuali tendenze di crescita estese a livello planetario (compresa ovviamente la crescita della popolazione) le temperature possano salire di 4 o 5 gradi centigradi nel giro di 150 anni. Le conseguenze sulla vita di miliardi di persone (soprattutto nelle fasce più povere) sarebbero devastanti e comincerebbero a manifestarsi molto prima di 150 anni. In effetti, le vediamo già oggi con il citato +1,1°, anche se su scala ancora abbastanza limitata.

EPA/YURI KOCHETKOV

Ai tempi della Stern Review si riteneva che fosse sufficiente limitare la crescita delle temperature a +2° per evitare i rischi più gravi. Oggi è condiviso dagli scienziati che la soglia di (relativa) sicurezza sia +1,5°. Per esempio, con +1,5° la quota di popolazione mondiale esposta a grandi ondate di calore almeno ogni 5 anni sarebbe del 14 per cento; con +2° sarebbe del 37 per cento, la relazione tra aumento della temperatura e rischi associati sarebbe tutt’altro che lineare. Per restare entro la soglia di +1,5° è necessario arrivare a emissioni nette pari a zero entro il 2050, seguendo un percorso accelerato. Si tratta di un approccio basato sul principio di prudenza, che permette di evitare i rischi più gravi, «compresi la possibilità di perdita della vita per miliardi di persone, conflitti estesi e micidiali, distruzione della biodiversità, severa riduzione della qualità della vita e del benessere».

Cosa bisognerebbe fare per realizzare quanto tracciato dagli accordi di Parigi (2015) e rinforzato dal Patto di Glasgow (2021)? Soprattutto come aiutare i Paesi emergenti e in via di sviluppo (Evs)? Finora questi hanno contribuito relativamente poco all’accumulo di CO2 ma se seguissero il sentiero «sporco» seguito dai Paesi ricchi nei decenni passati farebbero impennare le emissioni e deragliare qualsiasi strategia di contenimento dei cambiamenti climatici, di cui, peraltro, gli abitanti di quei Paesi sono le principali vittime. Prima di tutto dobbiamo sapere che siamo in ritardo. L’impegno dei Paesi sviluppati di arrivare entro il 2020 a 100 miliardi di dollari l’anno di finanza per il clima a favore dei Paesi in via di sviluppo non è stato rispettato. Forse lo sarà nel 2023. Ma il problema è che i Paesi in via di sviluppo (esclusa la Cina, che ha un tasso di investimento altissimo) hanno bisogno che la «finanza esterna» (che si aggiunge a quella interna degli Evs) contribuisca non con 100 ma con circa 1.000 miliardi di dollari l’anno entro il 2025, così da arrivare a circa 2.400 miliardi di dollari entro il 2030, per la trasformazione dei sistemi energetici, l’adattamento e la resilienza a fronte del riscaldamento già in atto, la trasformazione sostenibile dell’agricoltura, l’arresto della deforestazione, ecc. La differenza tra il vecchio (e mancato) obiettivo dei 100 miliardi di dollari e quello dei 1.000miliardi è che il primo era il frutto di un compromesso negoziale, il secondo è derivato da un’analisi degli investimenti necessari nei Paesi in via di sviluppo, tenendo conto della finanza interna potenzialmente disponibile.

Le cifre in gioco sono così enormi da sembrare impossibili da raggiungere o, comunque, insopportabili sia per gli Evs che per i Paesi sviluppati. Il rapporto Finance for climate action – curato nel 2022, tra gli altri, proprio da Nicholas Stern – mostra come, in realtà, raggiungere il livello di finanziamento necessario non sia affatto fuori portata, e indica come mobilitare la finanza privata internazionale in cooperazione con le banche di sviluppo multilaterali. Inoltre – fa notare Stern – gli investimenti non sono dei meri costi: fruttano in termini di maggiore e migliore crescita (sostenibilità), grazie allo sviluppo di tecnologie «pulite» (i cui costi sono già oggi decrescenti) e ai diversi co-benefici, compresi un generale miglioramento della salute e del benessere derivanti dalla mitigazione dei cambiamenti climatici e dalla creazione di condizioni di adattamento a quelli ormai avvenuti. Contribuire a rafforzare e migliorare la crescita dei Paesi in via di sviluppo è nell’interesse dei cittadini e delle imprese dei Paesi sviluppati, ma anche della finanza lungimirante. È parte di una globalizzazione che davvero funzioni.

Concludendo la sua lectio magistralis, Stern ha detto: «Sappiamo come progredire nel campo delle tecnologie, i cambiamenti sistemici, le politiche e la finanza, ma ho seri dubbi sulla nostra capacità di progredire con sufficiente rapidità. Così, mentre sono molto ottimista circa quello che possiamo fare, mi preoccupo molto di ciò che effettivamente faremo». L’inerzia nei confronti del riscaldamento globale è anche il frutto di aver a lungo messo sotto il tappeto questioni eticamente fondamentali, insieme ai rischi di catastrofe e al principio di precauzione. Dovremo davvero smettere di farlo.

* Una versione più ampia di questo articolo è stata pubblicata sul N. 185 di Menabò di etica ed economia, 14 gennaio 2023, https://eticaeconomia.it/menabo/

L'autore è docente di Economia politica all’Università Cattolica del Sacro Cuore

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