mercoledì 29 giugno 2022
Durante la pandemia circa 100mila persone sono rientrate nelle Regioni d'origine per lavorare da remoto. Servono infrastrutture e cultura per provare a rendere strutturale questo fenomeno
Lavorare dal Sud: la pandemia ha reso possibile una nuova forma di flessibilità

Lavorare dal Sud: la pandemia ha reso possibile una nuova forma di flessibilità

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Lavorare dal Sud. La diffusione dello smart working durante la pandemia ha disegnato una nuova prospettiva per il Mezzogiorno italiano. Quella di diventare un polo di attrazione per molti giovani, oggi impiegati in imprese del Nord o estere, la cui attività possa essere svolta anche a distanza. La strada per ora è solo tracciata ma, a determinate condizioni, potrebbe allargarsi se il lavoro agile consoliderà la sua diffusione anche nel post-pandemia e se il Sud Italia sarà all’altezza della sfida. Le prove generali del South Working si sono tenute tra il 2020 e il 2021 quando con l’irrompere del Covid molte imprese hanno adottato in via emergenziale il lavoro a distanza come nuovo modello. Tra i tanti che alla vigilia del lockdown si precipitarono nelle stazioni e negli aeroporti del centro-nord per prendere l’ultimo mezzo utile ci furono anche molti lavoratori originari del Sud che colsero l’occasione di tornare a casa ed esercitare da lì la loro attività, almeno per qualche tempo. Il rapporto Svimez sul 2020 ha stimato che durante la prima fase della pandemia circa 45mila persone impiegate in 150 grandi aziende del Nord siano tornati nella loro città di origine. E se si tiene conto anche delle piccole e medie imprese il fenomeno potrebbe aver riguardato almeno 100mila lavoratori meridionali. La domanda di lavoro, specialmente quello qualificato, nel Sud è costantemente superiore all’offerta. E molti giovani che si sono spostati verso le re- gioni del Nord o in altri Paesi europei per trovare un’occupazione potrebbero tornare volentieri nelle loro zone, se potessero conservare il lavoro. È in questo contesto di mismatching territoriale che il lavoro a distanza dal meridione potrebbe consolidarsi.

L’associazione South Working – Lavorare dal Sud ha pubblicato nei mesi scorsi un volume («South Working - Per un futuro sostenibile del lavoro agile in Italia», a cura di Mario Mirabile ed Elena Militello, Donzelli editore) che con il contributo di diversi autori ragiona sulla possibilità di allargare questa esperienza. Il punto centrale della riflessione è quello espresso nella prefazione da Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione con il Sud. «Lavorare dal meridione non è solo un opportunità per i singoli lavoratori interessati ma un’opportunità per le comunità ». Perché, scrive, «la vera causa del divario nordsud sta nella sottodotazione di capitale sociale. E i giovani che ritornano al Sud, anche lavorando in imprese che stanno altrove, contribuiscono a dare più dinamismo al loro territorio». Come è «importantissima l’esperienza dei lavoratori non meridionali che scelgono di andare nel Mezzogiorno operando da remoto». Il South working ha dunque la possibilità di intercettare i desideri dei singoli lavoratori e insieme di aprire nuove possibilità di rilancio per le regioni meridionali, afflitte storicamente dalla perdita di capitale umano lavoratori causata dall’emigrazione. Un capitale umano che nel caso del lavoro agile è spesso di livello elevato, legato a professioni intellettuali conseguenti a percorsi di formazione universitaria. In base al monitoraggio effettuato dagli autori del volume, durante la pandemia i southworker erano in buona parte lavoratori con alti titoli di studio, con lauree prevalenti in ingegneria, discipline economiche e scienze politiche. Le professioni più facilmente remotizzabili sono quelle della conoscenza. Ma, avvertono gli autori, si tratta di attività che «necessitano di un humus sociale, e culturale e relazionale senza il quale faticano a mantenersi vive e stimolanti per chi le pratica. Sono a tutti gli effetti professioni metropolitane e richiedono pertanto un contesto congruente a questo loro carattere, che allo stato attuale non è facile rinvenire nemmeno nei centri più grandi del Sud».

Il fenomeno della decentralizzazione del lavoro, ragiona l’economista e storico dell’economia meridionale Emanuele Felice «non è solo italiano, ma europeo e globale, ed è una delle conseguenze positive della pandemia dal momento che le persone che possono lavorare a distanza contribuiscono a decongestionare le grandi città e hanno la possibilità di scegliere zone dove il costo della vita è più conveniente. Detto questo però – aggiunge - va considerato che i lavoratori interessati allo smart working in genere non sono quelli con i salari più bassi. E poi nella spinta alla migrazione di giovani talenti dal sud al nord Italia o al resto del mondo non c’è solo l’aspetto del salario e della convenienza economica ma anche il fatto di poter vivere in contesti come Milano, Londra, Berlino o Barcellona, città che offrono opportunità di vita e di lavoro che altrove non ci sono, condizioni alle quali può essere difficile rinunciare». Insomma il lavoro a distanza, da grande distanza, non garantisce la stessa vita di relazione di quello in presenza. Un primo problema per un allargamento di questa esperienza è pertanto quello di offrire un ambiente socio-culturale adatto. Nei desiderata dei southworkers, spiega il volume, prevale non a caso l’idea di una modalità di lavoro che non è quella del “full remote”, ma piuttosto un modello misto, libero ma pendolare, che permetta di alternare la prestazione da remoto con momenti in presenza che consentano di mantenere vivo il legame con la sede, i colleghi, la città di provenienza. Da questo punto di vista la possibilità di lavoro in coworking, ovvero in strutture condivise e comunitarie, potrebbero giocare un ruolo fondamentale nelle città del Sud, offrendo elementi di socializzazione lavorativa e contribuendo a superare il rischio di marginalizzazione dei “lavoratori agili”. Una prospettiva, suggeriscono gli autori, che andrebbe incentivata dagli enti locali meridionali. Ci sono anche altre ragioni strutturali che possono frenare il desiderio degli smart workers di rilocalizzarsi al Sud. L’insufficienza dei mezzi di trasporto rapido, che può tradursi un isolamento territoriale tanto più sgradevole per chi ha studiato e lavorato altrove; il livello medio dei servizi sociali, inferiore a quello del Nord e ancor più a quello europeo; e poi la diffusione e la qualità delle reti informatiche, elemento imprescindibile perché un’impresa possa dislocare un proprio dipendente a centinaia di chilometri di distanza. «Il South working può essere una possibilità di sviluppo, ma i territori si devono attrezzare – afferma ancora Felice –. L’opportunità c’è a patto di saperla cogliere. Penso soprattutto all’arretratezza dei collegamenti e del sistema sanitario meridionale. Il fenomeno è presente anche in Francia, ma lì è meno problematico perché lo scarto tra i territori in termini di servizi, tra la provincia francese e Parigi, sono minori dei divari che abbiamo, ad esempio, tra Emilia Romagna e Calabria, tra Lombardia e Sicilia. Ci vogliono infrastrutture come l’alta velocità, che con i progetti del Pnrr nei prossimi anni si espanderà a Sud, ma anche una rete telematica adeguata, la banda larga».

Un’ulteriore preoccupazione poi riguarda i servizi per l’infanzia e gli asili nido. Le disparità in questo campo tra Nord e Sud sono amplissime e questo è un problema per i lavoratori che hanno figli o intendono averne. Le differenze non mancano neanche all’interno del Sud. La ricerca, in base ai criteri di valutazione citati, delinea una mappa del grado di attrattività dei Comuni meridionali, evidenziando come i maggiori poli urbani del Mezzogiorno, da Palermo a Catania, da Bari a Napoli offrano condizioni comprensibilmente migliori delle aree periferiche, anche se non ottimali (la carenza di asili nido ad esempio è diffusa ovunque). Le prospettive del Southworking si delineano così come un “work in progress”, come lo definiscono gli autori. Intanto la sua implementazione è legata strettamente, come tutto il lavoro agile, a un cambiamento della cultura organizzativa delle imprese che, superata la fase pandemica, devono scegliere modelli a supporto di una maggiore autonomia lavorativa dei dipendenti. Per quanto riguarda poi lo specifico del Sud, lo sviluppo del lavoro a distanza sembra essere legato all’innesco di un circolo virtuoso: dove il miglioramento delle condizioni strutturali del Mezzogiorno gioca a favore di una maggiore attrattività di quei territori e favorisce il “ritorno a casa” dei southworkers, mentre la stessa presenza sul territorio di questi ultimi contribuisce a sua volta a migliorare e modernizzare l’ambiente sociale e culturale delle comunità.

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