Tre dati che messi in fila diventano molto eloquenti: a livello globale si producono ogni anno 150 miliardi di capi di abbigliamento, che contribuiscono fino al 10% delle emissioni globali di gas serra e costituiscono la seconda realtà industriale più inquinante per le acque. Un quadro già di per sé sconfortante che peggiora se apriamo il capitolo rifiuti, vera spina nel fianco del settore. Ogni anno l’Europa – secondo l’Osservatorio “Just Fashion Transition 2023” di Ambrosetti – produce più di 5 milioni di tonnellate di rifiuti tessili che per la maggior parte dei casi finiscono in discariche a cielo aperto in Africa o in Cile. Una mole di scarti che la fast fashion (il modello di business che spinge a produrre e consumare velocemente, in genere a basso costo) e l’e-commerce hanno contribuito ad aumentare. Un ritratto che si potrebbe sintetizzare così: l’universo della moda è molto in ritardo in tema di sostenibilità. E lo è a 360 gradi.
Le cose non vanno meglio infatti se si posa lo sguardo sul rispetto dei diritti sociali: a dieci anni dalla strage di Rana Plaza di Dacca, in Bangladesh (in cui persero la vita 1.300 operai del tessile), tra il 2017 e il 2021 le condizioni di lavoro dei Paesi cosiddetti “a rischio” sono peggiorate e la quota di coloro che ricevono un salario di sussistenza arriva appena al 2%. Come invertire la rotta in una fase storica nella quale la crisi climatica chiede un colpo di reni e la sostenibilità è diventata un drive strategico di competitività? È quello che si sono chiesti i protagonisti dell’eccellenza della moda italiana nella seconda edizione del “Venice Sustainable Fashion Forum”, organizzato da Sistema moda italia (Smi), The European House Ambrosetti e Confindustria Veneto Est. Una due giorni di dibattito, e anche di autocritica, alla ricerca di una spinta necessaria per accelerare la transizione green. Con il coinvolgimento di tutti gli attori della catena: dal mondo istituzionale a quello finanziario, dalle aziende ai consumatori che si dicono attenti alla sostenibi-lità, ma ancora oggi non si interrogano sulla tracciabilità di un prodotto tessile. Il report “Just Fashion Transition 2023” passa al setaccio i bilanci di oltre 2.800 aziende italiane ed europee, le 100 imprese più importanti del settore e i 30 maggiori retailer globali. E racconta di una realtà a tinte grigie che procede ancora con troppa, estrema lentezza. Il 17% delle aziende europee ha fatto passi avanti in materia ecologica, il 16 se guardiamo al nostro Paese. Per l’Agenzia europea per l’ambiente, inoltre, tra il 2017 e il 2020, in Europa l’impronta ambientale dei prodotti tessili è calata in media del 46%, a fronte di uno sviluppo tecnologico del settore che è progredito del 23%. Ma la musica cambia se si affronta la questione rifiuti. Un fenomeno di proporzioni ai più inimmaginabili, che è valso agli scarti della moda l’appellativo di “nuova plastica”.
«Oggi la moda è il settore che esporta il maggior numero di rifiuti in Paesi extraeuropei – il 93,5% del totale – e questo valore si è moltiplicato per cinque volte tra il 2000 e il 2019» spiega Carlo Cici, responsabile della Sostenibilità di The European House-Ambrosetti. Non solo: un capo su tre acquistato online viene restituito e nella maggior parte dei casi entra a far parte dei 5,2 milioni di tonnellate di scarti tessili prodotti ogni anno in Europa. Una media di 35 capi a persona (un chilo al mese), 31 dei quali finiscono direttamente in discarica. Dei quattro rimanenti, tre vengono riciclati e solo uno ha una seconda vita con il mercato dell’usato. Produrre un capo sostenibile poi sembra essere due volte più costoso rispetto a uno tradizionale, eppure promette un guadagno fino a quattro volte superiore. E allora perché il mondo della moda è ancora dominato dall’offerta di poliestere? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tenere a mente il profilo tipico del consumatore nella realtà odierna. « È una persona che si dice attenta alla sostenibilità ma non legge le etichette, forse anche per colpa di una comunicazione dei marchi ancora troppo debole», continua Cici. Che sfata il mito di una nuova generazione che si dice «attenta all’ambiente ma poi compra compulsivamente capi della fast fashion online». Insomma la moda green oggi non conviene e le aziende non sembrano disposte a sobbarcarsi il costo necessario in un momento in cui il potere di acquisto delle famiglie è così basso e la variabile energetica alle stelle. Ma se gli acquirenti hanno le loro responsabilità nella lenta strada della moda verso la transizione ecologica, i grandi brand del made in Italy non sono da meno. « Per troppo tempo, per rincorrere la logica del consumismo sfrenato, ci siamo affidati a prodotti a basso costo provenienti da Paesi come Cina, Vietnam, Bangladesh e una parte dell’Africa», spiega Sergio Tamborini, presidente di Smi.
Capi che sono arrivati nel mondo occidentale togliendo lavoro manifatturiero e bloccando filiere adesso difficili da recuperare e dunque, sostiene Tamborini, «urge un cambio di paradigma culturale per passare dall’illusione dell’abbondanza all’economia dell’abbastanza», puntando sulla riduzione e sul riuso, «coinvolgendo tutti gli attori della catena con regole trasparenti e snelle». E che il problema sia prima di tutto culturale lo racconta anche Andrea Rambaldi, titolare di FashionArt, società del padovano che si occupa di trasformare le creazioni degli stilisti in manufatti di eccellenza. Un fiore all’occhiello del green italiano, come risulta dal suo bilancio di sostenibilità. « Eppure non abbiamo con i clienti francesi (Chanel è socio di maggioranza) gli stessi problemi e gli stessi freni che abbiamo con gli italiani, pur avendo come riferimento brand di pari livello », racconta rammaricato il titolare. FashionArt sta cercando, per alcuni progetti specifici, di internalizzare la produzione dei materiali e per il cotone biologico collabora con la stessa impresa siciliana che lavora con Ovs, come già raccontato da L’Economia Civile. A dimostrazione che la sostenibilità nella moda non è una chimera. E può essere anche una garanzia di qualità accessibile a tutte le tasche.