lunedì 1 aprile 2024
Le storie di Saleh e di altri uomini accolti dal “Casale del melograno” creato a Castrolibero, alle porte di Cosenza, grazie ai fondi dell’8xMille
undefined

undefined - Agenzia Sir

COMMENTA E CONDIVIDI

«Mi sono lasciato alle spalle dolore, morte e distruzione. Ho camminato a piedi nel deserto per tre giorni e tre notti prima di arrivare in Turchia». Lo racconta Saleh (il nome è di fantasia), un siriano che è tra gli uomini accolti dal “Casale del melograno” creato a Castrolibero, alle porte di Cosenza, grazie ai fondi dell’8xMille. Lo ha messo in piedi la Caritas dell’arcidiocesi di Cosenza-Bisignano attraverso le braccia e il lavoro progettuale dell’associazione “Casa nostra”. È una struttura destinata ad accogliere detenuti o ex detenuti interessati a provare a chiudere con un passato carico di errori e sofferenze, brutte strade e pessime compagnie. Ci sono accordi di collaborazione con il Tribunale e l’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) di Cosenza. Oltre a garantire un tetto a tredici persone, “Il casale” punterà sulla rieducazione lavorativa grazie a un intervento di agricoltura sociale e fattoria didattica. All’impegno nei campi si spera di aggiungere un laboratorio di trasformazione dei prodotti coltivati.

Saleh, accusato d’essere uno scafista, ha scontato tre anni e ora grazie al “Casale del melograno” sta provando a ricominciare, anzitutto per provare a portare in Italia la figlia rimasta in Siria ma ospite d’una parente, perché la mamma e il fratellino sono stati uccisi da una bomba caduta sulla loro casa. Saleh lo ha saputo mentre era detenuto. «Non potete capire cosa si può sentire nel cuore quando non hai la possibilità di salvare il proprio figlio e la propria moglie», racconta il non più giovanissimo siriano abbracciato idealmente dai volontari del “casale”, dal direttore della Caritas diocesana don Bruno Di Domenico e dal responsabile di “Casa nostra” Pino Salerno. Oltre che dagli altri ospiti. Durante l’inaugurazione il sacerdote ha sottolineato l’importanza di dare una seconda occasione a chi ha sbagliato e ha pagato.

Al momento sono dieci gli uomini accolti: due siriani, un iracheno, due albanesi, un ucraino, un nigeriano e tre italiani. Con loro due operatori e altrettanti volontari: Giulia, Rossella, Enzo e Fabio. Due ragazzi italiani sono già impegnati in tirocini formativi grazie ad aziende locali che hanno aperto le loro porte. Si spera che altre le facciano. La riabilitazione attraverso il lavoro, in particolare agricolo, è una priorità dell’intervento. La fattoria può contare su quaranta galline, tre galli, quattro arnie per le api e due capre. Altri animali arriveranno nei prossimi giorni.

L’idea, spiegano i responsabili, «ambisce ad accompagnare persone fragili e svantaggiate che dispongono di poche risorse materiali proprie e familiari. Spesso a questi problemi si aggiungono difficoltà comportamentali e incapacità di progettare in maniera appropriata ai propri obiettivi. Si vuole puntare sulla giustizia, l’errore e la pena. Un tentativo di costruzione delle nostre comunità capaci d’immaginare l’autore del reato come parte della società, come qualcuno che ha scelto di creare uno strappo tra sé e una realtà che, seppure a certe condizioni, desidera ricucire quello strappo alla ricerca di non considerarsi esclusi ma cittadini».

Saleh racconta il suo viaggio in mare, parlando di scafisti russi «armati e cattivi». Dice di aver obbedito ai loro ordini per paura e, soprattutto, perché dalla sua salvezza poteva dipendere la vita della sua famiglia rimasta in Siria. Poi quella bomba… Adesso le resta solo sua figlia, che spera potrà raggiungerlo presto in Italia.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: