martedì 11 ottobre 2016
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Premio alla «teoria dei contratti», semplice e disastrosa La cultura del contratto è la grande vincitrice del nostro tempo di troppi poveri perdenti. Si è sviluppata sulle ceneri della cultura del patto, che era stata la colonna portante dell’edificio famigliare, civile e politico delle generazioni passate. Fino a pochi decenni fa, il regno del contratto era importante ma delimitato, perché la gran parte della vita della gente era retta dal registro del patto (famiglia, amicizia, politica, religione, lavoro ...).

Patti e contratti hanno convissuto per molti secoli, erano strumenti complementari per la vita sociale. Fino a quando la globalizzazione dei mercati e della finanza e l’emergere di un ethos dove ogni legame è vissuto come un laccio per l’individuo, hanno decretato la trasformazione progressiva di tutti i patti in contratti. Il patto è (era) un fatto comunitario e simbolico. Non nasce dal solo registro dell’interesse personale, ma ha nella gratuità, nel perdono, nei legami e negli interessi collettivi i suoi elementi costitutivi. Matrimoni, cooperative, città, costituzioni, il lavoro, erano patti e non contratti – e sino a quando “vivono”, lo sono ancora. I contratti piacciono molto all’individuo postmoderno perché gli appaiono come “relazioni umane senza ferita”, cioè rapporti con costi “di attivazione” e “di uscita” molto bassi, certamente più bassi dei costi dei patti.

E così il contratto sta velocissimamente sostituendo il patto nella famiglia, nella scuola, nella sanità, nel “mercato del lavoro”, presentandosi come l’unico strumento davvero liberale e civile per regolare i rapporti umani, possibilmente tutti. Si capisce allora perché il Comitato per l’assegnazione del premio Nobel per l’economia, nel premiare ieri agli economisti Oliver Hart e Bengt Holmström, abbia motivato la scelta dei vincitori dicendo che il loro lavoro sulla teoria dei contratti copre oggi una area sempre più vasta, «dalla regolamentazione dei fallimenti delle imprese, fino al disegno delle costituzioni».

La teoria economica dei contratti è infatti ormai diventata una grammatica universale per disegnare i rapporti umani non solo nelle imprese, ma anche nelle università, nella politica, e sempre più in ogni forma di organizzazione. Questo l’Accademia Reale delle scienze di Svezia mostra di saperlo molto bene. Ma ciò che forse non sa, o non dice, è che la teoria dei contratti sta cambiando profondamente il nostro modo di stare insieme al mondo, e non in meglio. Essa, infatti, veicola una ben precisa visione dell’uomo e una sempre più invadente e influente ideologia, che si basa su alcuni assiomi-dogmi tutt’altro che eticamente neutri. Il principale e più potente è la teoria dell’incentivo, secondo la quale se lo paghi in modo adeguato e sofisticato puoi ottenere praticamente tutto da ogni essere umano.

E quindi tutte le altre motivazioni non monetarie e non auto-interessate degli esseri umani non vanno prese sul serio perché non sono credibili né affidabili. Il lavoratore o il cittadino – secondo questa teoria economica – non lavora bene perché attribuisce un valore in sé al lavoro ben fatto, ma solo se adeguatamente remunerato. E dopo decenni durante i quali gli economisti hanno continuato a pensare, scrivere, e a insegnare tutto ciò, è sempre più difficile trovare qualcuno che pensi che la prima motivazione che spinge una persona a lavorare bene sia la sua etica professionale o il proprio dovere. 

Un effetto collaterale di questa neopremiata teoria dei contratti, è presentare tutti i rapporti umani come rapporti liberi tra pari (come contratti, appunto). Siamo quindi all’eclissi del grande tema del potere, che viene declinato come una semplice questione di giusti incentivi. Tutto semplice, troppo semplice. Un semplicismo fondato sul grande vulnus di un forte riduzionismo antropologico, di cui la teoria dei contratti è massima espressione.

La complessità motivazionale, simbolica, relazionale, spirituale delle persone è lasciata sullo sfondo. Si dipingono uomini e donne troppo semplificati, si costruiscono contratti reali a misura di questi “omuncoli economici”, e alla fine finiamo anche per credere di essere veramente come ci vede un’economia che insegue l’antica utopia di ridurre le relazioni umane a una questione di tecnica, e perciò eticamente neutrale, universale, astratta.

E inutile, se non fosse manipolatoria. Allora, la domanda vera diventa: siamo sicuri che oggi, mentre ne continuiamo a pagare le conseguenze disastrose, fosse opportuno premiare i maggiori rappresentanti di questa teoria economica e finanziaria che viene presentata come una semplice “scatola di strumenti”? Forse, se vogliamo che la gente torni amica della teoria economica e la teoria economica si dimostri amica della gente, servono economisti più umanisti e meno tecnicisti. Studiosi che alla domanda: «Cosa ti ha spinto a diventare economista?», potrebbero dare risposte simili a quella che diede quasi un secolo fa il grande (e dimenticato) Achille Loria: «Il dolore umano».

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