martedì 6 giugno 2017
Il no del presidente sul clima può frenare la corsa green dei costruttori ma dietro c'è una precisa politica contro i marchi stranieri. Che paradossalmente potrebbe danneggiare la stessa industria Usa
Un manifestante coreano protesta contro Trump dopo le decisioni prese sul clima al vertice di Parigi

Un manifestante coreano protesta contro Trump dopo le decisioni prese sul clima al vertice di Parigi

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La volontà ufficializzata da Donald Trump di uscire dall’accordo mondiale sul clima, oltre che sulla salute degli abitanti del pianeta, potrà avere ripercussioni molto più immediate sul loro portafoglio, attraverso le quotazioni dei carburanti per autotrazione e sui prezzi praticati anche in Europa. Non è chiaro se in assoluto la scelta del presidente americano significherà “licenza di inquinare”, ma è sempre più evidente che – caduta la motivazione ambientale – la nuova politica americana in materia è orientata a sanzionare duramente l’automobile solo per motivi protezionistici.

La svolta americana potrebbe frenare la rincorsa virtuosa degli stessi costruttori, che da tempo si svenano per produrre vetture sempre più pulite, obbligati dal sentire comune e da norme sempre più restrittive. E comunque conferma quanto decisivo sia sempre stato l’atteggiamento della casa Bianca sui destini dell’industria automobilistica mondiale. Barak Obama, soprattutto nel suo secondo mandato, oltre che battezzare il matrimonio tra Chrysler e Fiat, aveva imposto una decisa sterzata verso le energie rinnovabili e l’ecocompatibilità, favorendo la crescita di marchi votati alle “emissioni zero” come Tesla. Ora l’inversione di marcia sul clima è stata così clamorosa che lo stesso Elon Musk, che di Tesla è il fondatore, ha scaricato Trump abbandopnando polemicamente i due consigli della Casa Bianca di cui faceva parte, lo Strategic and Policy Forum e quello concentrato sul rilancio del settore manifatturiero.

Nei giorni scorsi intanto il "Washington Post" ha anticipato un documento governativo con il quale l’amministrazione Trump, dopo aver messo a capo dell’Epa (Enviromental Protection Agency) un negazionista dei cambiamenti climatici dovuti all’inquinamento come Scott Pruitt, ne ha pure ridotto il budget del 30% (48 milioni di dollari di tagli). I licenziamenti all’interno dell’agenzia sarebbero 168 e circa 50 i programmi di salvaguardia ambientale congelati, tra i quali quelli sui nuovi test più restrittivi sulle emissioni delle auto. Una notizia che potrebbe influire relativamente sul caso Fiat-Chrysler, nel mirino dell’Epa nella gestione pre-Trump e contro la quale il Dipartimento di Giustizia Usa ha aperto una causa civile per la sospetta violazione delle regole in merito alle emissioni dei veicoli diesel, ma che contrasta decisamente con la feroce guerra dichiarata a partire dal settembre 2015 dagli Stati Uniti alla Volkswagen con il “dieselgate”, conclusa con il risarcimento di 15 miliardi di dollari per i danni causati all’ambiente e ai clienti americani.

Che il grande nemico di Trump siano le auto straniere, e le tedesche in particolare, non c’è più dubbio dopo il celebre «Very bad», pronunciato alla riunione Nato a Bruxelles. «Guardate quanti milioni di auto vendono negli Usa: spaventoso. Questo lo fermeremo», avrebbe detto il presidente, riferendosi sempre alla Germania e al suo surplus commerciale durante il G7 a Taormina. Errore di traduzione o meno, l’inquilino della Casa Bianca dimentica un piccolo dettaglio: è vero che la Germania esporta 151 miliardi di dollari in automobili nel mondo, ma è vero anche che l’America stessa ne esporta 50, e di questi più di 10 riguardano auto tedesche ma fabbricate negli Usa. Facendo una guerra commerciale a Porsche, Bmw e Volkswagen, Trump danneggerebbe la stessa industria americana e migliaia di posti di lavoro di operai statunitensi.

Nella casse federali Usa intanto continuano ad affluire risorse dai costruttori di auto stranieri. I prossimi 553 milioni di dollari verranno versati dalle giapponesi Toyota, Mazda e Subaru e dalla tedesca Bmw che si sono accordate con le autorità per una “compensazione” relativa agli airbag difettosi del fornitore nipponico Takata – a sua volta multato per 1 miliardo di dollari – che avevano causato non meno di 17 morti e imposto richiami per un totale di 42 milioni di veicoli nei soli Stati Uniti.

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