mercoledì 5 maggio 2010
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Caduto il sistema corporativo fascista, due scarni principi della Costituzione hanno retto, per lungo tempo, il sistema dei rapporti intersindacali in Italia. L’articolo 39, secondo cui «l’organizzazione sindacale è libera». E l’articolo 40, che dispone: «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolamentano». Troppo poco perché l’azione sindacale potesse trovare spazio nella realtà quotidiana del mondo del lavoro. Almeno fino a quando la tumultuosa stagione del ’68 non riaprì la questione sociale riproponendo, in un contesto di lotte e di violenza, il tema della democrazia sindacale.È in questo periodo che si colloca lo Statuto dei lavoratori, la legge 300 del 1970, recante norme sulla tutela delle libertà e dignità dei lavoratori e sull’attività sindacale nei luoghi di lavoro. Proprio alla luce delle tensioni che l’hanno generata, è spesso definita come la prima legge sindacale negoziata conosciuta dall’Italia. Una legge che ha avuto il merito di rivitalizzare la scelta di fiducia dei padri costituenti verso il sindacato, concepito come agente capace di portare trasformazione sociale, degno di avere piena cittadinanza all’interno delle fabbriche.Sindacato come contropotereLa legge 300, costruita attorno a sei titoli, ha promosso il ruolo del sindacato nell’impresa, in un contesto storico e legislativo dominato da una visione autoritaria e paternalistica del rapporto di lavoro, che vedeva il lavoratore come soggetto debole in quanto sottoposto al potere e al controllo del datore. Prima della legge 300 (o forse, più precisamente, prima della legge sui licenziamenti del 1966) il sindacato era una realtà esterna all’azienda, limitata nella sua azione dialettica con il datore di lavoro. Con lo Statuto il legislatore ha scelto, al contrario, un modello di gestione dei rapporti di lavoro costruito attorno alla tutela della «libertà e dignità del lavoratore», dove il sindacato è centro del contropotere ed espressione più efficace e organizzata della volontà dei singoli. Questo è il primo grosso filone di interesse della legge, che perciò contiene la disciplina dei poteri datoriali: regolazione del potere di controllo, del potere direttivo, del potere organizzativo e del potere di licenziamento. Nello Statuto il legislatore ha voluto contrastare le possibili situazioni di compressione della libertà di chi lavora nell’impresa; di conseguenza ha regolamentato rigorosamente l’uso della polizia privata, il controllo a distanza, gli accertamenti sanitari, le visite personali di controllo, l’esercizio del potere disciplinare e l’assunzione di informazioni private.Tutelata la libertà sindacaleForse più importante e più decisivo negli anni a venire, è, però, il secondo nucleo di norme, avente a tema la difesa e la promozione del sindacato. A questo riguardo il legislatore ha scelto di tutelare l’esercizio della libertà sindacale e di garantire la presenza dei sindacati nell’organizzazione aziendale. Nella parte dedicata alla libertà sindacale la legge 300 ribadisce il diritto di associazione e di attività sindacale nei luoghi di lavoro, la nullità di trattamenti discriminatori in ragione dell’appartenenza al sindacato e il divieto di costituzione di sindacati di comodo (i cosidetti "sindacati gialli"). È questa la parte della legge che contiene il famoso articolo 18 che dispone, per le imprese di maggiori dimensioni, il reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato nel proprio posto di lavoro, in luogo del più tenue risarcimento dei danni previsto nella legislazione precedente.Escluse le realtà più piccoleLa legge 300 contiene poi una normativa promozionale dell’attività sindacale nelle singole unità produttive, formalizzando una serie di diritti che agevolano l’azione del sindacato: assemblee, referendum, permessi, diritti di affissione, contributi e locali dedicati. Anche per questi profili il campo di applicazione della legge è limitato alle fabbriche di medio-grandi dimensioni, che necessitavano allora di una modernizzazione delle relazioni industriali. In effetti diversi passaggi dello Statuto sono stati mutuati dalle concessioni ottenute dalla contrattazione aziendale nelle grandi fabbriche del Nord (bacheche, referendum, stanze dedicate etc.). Sono così rimaste escluse dall’applicazione della norma le realtà più piccole, che, tra l’altro, nel corso degli anni, non sono andate diminuendo, ma aumentando, confermando di conseguenza la debolezza del sindacato in tali realtà.Nel prevedere un efficace strumento di repressione della condotta antisindacale, la legge 300 ha messo a disposizione del sindacato un potente strumento processuale per conseguire in via giudiziaria l’effettività della azione sindacale. Così facendo ha anche permesso l’intervento penetrante della magistratura nella vita aziendale che tanto si è diffuso negli anno seguenti. La legge si chiude, infine, con alcune norme sul collocamento, in quell’epoca dominato da una concezione di monopolio pubblico tanto rigorosa sulla carta quanto ineffettiva nella realtà del mercato del lavoro. Si tratta di articoli abrogati nel 2002 dal d.lgs. n. 297.I dissensi culturaliLa legge 300, ora giustamente studiata come testo di importanza capitale, subì, durante il periodo di discussione parlamentare, dimenticati attacchi di dissenso culturale. In particolare era rinfacciato allo Statuto di occuparsi di materie di competenza contrattuale e non legislativa e di dedicarsi eccessivamente al sindacato invece che al lavoratore, limitato nei diritti proprio dalla forza dell’organizzazione sindacale "istituzionalizzata". Negli anni queste posizioni sono state superate, nella convinzione che lo Statuto potesse essere, per dirla con Giacomo Brodolini, allora ministro del Lavoro, «non una proclamazione solenne dei principi, ma la garanzia di una più alta condizione di dignità, di libertà e di responsabilità del cittadino lavoratore». La storia ha dato ragione a questa intuizione.
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