venerdì 27 gennaio 2023
Le rilevazioni di Inapp mostrano che dopo la crescita dei mesi del Covid il “lavoro agile” non si sta più diffondendo. Potrebbero farlo 4 dipendenti su 10, ma è realtà solo per il 14,9% degli occupati
Lo smart working è già in stallo

CC Pixabay

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Sembrava scontato che lo smart working sarebbe rimasto tra le eredità della pandemia, assieme all’abitudine di lavarsi più spesso le mani e a quella di indossare la mascherina in posti chiusi e affollati. Invece con la fine dell’emergenza la diffusione del “lavoro agile” in Italia si è fermata, ha smesso di crescere. In Italia solo il 14,9% degli occupati svolge da remoto una parte della propria attività, calcola l’Inapp, l’Istituto nazionale per le politiche pubbliche che ha dedicato una giornata di studio al tema “Lavoro agile, definizioni ed esperienze di misurazione”.

I numeri dell’istituto vigilato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali dicono che lo smart working è diventata una consuetudine per circa 2 milioni di lavoratori. Sono soprattutto laureati, dipendenti di grandi imprese, occupati nei servizi, statali. Quel 14,9% (che scende al 13,8% per i lavoratori dipendenti) è un dato in forte aumento rispetto a qualche anno fa: solo il 4,8% dei lavoratori faceva smart working nel 2019, prima della pandemia. Nel 2020 c’è stato un balzo al 13,7% e poi la quota del lavoro agile si è stabilizzata, crescendo appena e mantenendosi su un livello basso rispetto alla media europea che, ricorda Inapp, era al 14,6% già nel 2019, cioè prima del Covid-19.

«Dai dati non emerge quel cambio di paradigma lavorativo che la pandemia sembrava aver innescato, almeno nel nostro Paese – dice Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp –. È come se durante la pandemia avessimo vissuto in “una grande bolla” e il ritorno alla normalità stesse vanificando le potenzialità del lavoro a distanza, a causa di una ridotta capacità di introdurre radicali innovazioni nell’organizzazione del lavoro».



In media lavorare da casa permette di risparmiare i 72 minuti di tempo quotidiano del tragitto casa-lavoro. Questo tempo guadagnato viene usato soprattutto per lavorare

I margini di crescita sono ampi: secondo le stime dell’Inapp gli occupati “telelavorabili” sono il 40% del totale, percentuale che in genere aumenta al crescere delle dimensioni aziendali e delle qualifiche richieste ai lavoratori. Tocca alle aziende – e più precisamente ai manager – imparare a innovare l’organizzazione e le modalità di lavoro per sbloccare il potenziale dello smart working. Farlo conviene, perché offrire la possibilità di lavorare anche a distanza aiuta le imprese a ingaggiare i lavoratori più ambiti (a partire dai giovani “introvabili” e indispensabili per la transizione digitale) e in molti casi aumenta la produttività.​

Un’indagine condotta da sei economisti e pubblicata pochi giorni fa dal National Bureau of Economic Research (Nber), una delle più autorevoli organizzazioni di ricerca economica, ha analizzato la realtà del lavoro a distanza in ventisette nazioni interrogando quasi 20mila persone. Ne emerge che in media lavorare da casa permette di risparmiare i 72 minuti di tempo quotidiano del tragitto casa-lavoro. Questo tempo guadagnato viene usato soprattutto per lavorare. In media chi sta in smart working dice di dedicare il 40% del tempo risparmiato al lavoro, il 34% allo svago e l’11% alla cura di bambini o di altri parenti. Vale anche per gli smartworker italiani: il risparmio di tempo medio in questo caso è di 61 minuti, dedicati per il 34% a lavorare, per il 31% al divertimento e per il 15% al lavoro di cura (quest’ultima, in particolare, è una delle quote più elevate al mondo).

Anche tra gli economisti l’idea più diffusa è quella del telelavoro come opportunità da cogliere. In un’altra indagine per il Nber gli studiosi avevano concluso che il lavoro a distanza porta grandi vantaggi ai lavoratori, riduce del 5-10% le spese nelle grandi città e aumenta del 5% la produttività. Matthew Kahn, dell’Università della California del Sud, in uno dei più influenti libri pubblicati su pandemia e lavoro a distanza (calibrato ovviamente sulla realtà degli Stati Uniti) ha concluso che lo smart working migliora la libertà personale e la qualità della vita delle persone, aumenta le opportunità lavorative e costruisce capitale sociale in comunità e città che rischiano l’abbandono. A livello sociale c’è un ovvio miglioramento dell’aria dovuto alle ridotte necessità di spostamento.

Ci sono anche evidenti effetti collaterali negativi. Come i problemi economici che la mancata circolazione dei lavoratori può avere sul trasporto pubblico locale (Milano costretta ai tagli delle corse è un caso esemplare) o l’impoverimento delle relazioni sociali che il lavoro a distanza comporta. Il bilancio tra benefici e costi non sempre è scontato e occorre tentare ed esplorare ancora. Forse lo smart working sarà meno diffuso di quanto si raccontasse nei mesi del lockdown, ma difficilmente si tornerà indietro.

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