giovedì 7 aprile 2011
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Forse non ha torto chi la definisce solo la fine di un’ipocrisia. Ma ciò nonostante è un segnale decisamente negativo la decisione della Cgil di Bologna di festeggiare il Primo maggio da sola, senza condividere piazza Maggiore con i «cugini» – un tempo si sarebbe detto gli «amici e compagni» – di Cisl e Uil.La festa dei lavoratori, infatti, ha sempre rappresentato per le organizzazioni sindacali un’occasione di unità, un ritrovarsi nei valori condivisi del lavoro, nella comune missione della tutela dei soggetti più deboli, nell’aspirazione a far avanzare le condizioni materiali dei dipendenti e della società tutta. Superando anche le differenze strategiche di organizzazione, riuscendo ad andare oltre persino alle scelte di schieramento politico, a quelle "cinghie di trasmissione" che un tempo caratterizzavano il rapporto tra sindacati e partiti. Il Primo maggio è sempre stato una «zona franca», nella quale la bandiera del lavoro faceva premio su quelle di organizzazione. Almeno negli ultimi venti anni. Perché in realtà il Primo maggio da «separati in casa» Cgil, Cisl e Uil lo hanno festeggiato per più di un lustro a partire dal 1984. Pesò allora la grande frattura dell’intesa separata sul taglio dei punti di scala mobile, raggiunta nella notte di San Valentino. Decisa dal governo Craxi, la misura serviva a raffreddare la crescita dell’inflazione e raccolse il consenso di Cisl, Uil e della componente socialista della Cgil. La maggioranza della confederazione di corso d’Italia invece l’avversò con forza e, assieme al Pci, arrivò a promuovere anche un referendum abrogativo. Raccogliendo una sonora sconfitta e producendo lacerazioni fra i sindacati e nei luoghi di lavoro che si rimargineranno solo dopo anni.Oggi, la scelta della Cgil di Bologna segnala che siamo purtroppo molto vicini a un nuovo 1984. Pesano gli accordi separati con la Fiat, i contratti nazionali firmati senza la Cgil, l’accordo sulla riforma del sistema contrattuale raggiunto con imprenditori e governo bypassando il veto della Cgil, la lite sul sistema di rappresentanza. Pesa soprattutto – impossibile nasconderlo – l’atteggiamento diametralmente opposto verso il governo Berlusconi. Disconosciuto e avversato sistematicamente dalla Cgil, trattato rigorosamente come interlocutore da Cisl e Uil. E, da ultimo, pende come una spada di Damocle lo sciopero generale proclamato dalla sola Cgil per il 6 maggio – l’ennesimo per la verità – contro gli accordi separati e contro l’esecutivo, ma che ha come sottofondo anche un pesante attacco alle altre confederazioni. La «dottrina» Fiom, la sua visione ideologica delle relazioni industriali e dei rapporti sindacali hanno evidentemente fatto nuovamente breccia nel corpaccione della Cgil. Che, come dimostra la dichiarazione di resa del suo segretario organizzativo («a livello nazionale festeggiamo insieme, a livello locale ognuno si regola come crede») non è più in grado di governare le categorie e i territori. Anche il linguaggio è tornato a imbarbarirsi, con il rieccheggiare di epiteti come «servo dei padroni» e «venduto» rivolti ai leader di Cisl e Uil. Facendo così venir meno quel riconoscimento reciproco che è alla base di qualsiasi rapporto.Per questo non ha torto chi dice che il caso di Bologna è solo la fine di un’ipocrisia: come si fa a sfilare in corteo assieme a Bergamo, dove dirigenti Fiom hanno guidato i manifestanti a tirare le uova contro le sedi sindacali della Cisl? E neppure è un mistero che c’è chi – anche ai massimi livelli politici – teorizza come le vere riforme e un nuovo sindacato siano nati proprio dal travaglio di quella notte "spacca-Triplice" del San Valentino 1984, auspicando che altre ne vengano, per maggiore chiarezza e nuovi progressi. Di certo, però, le convulsioni che accompagnano queste ipotetiche svolte sono e saranno ancora una volta i lavoratori a subirle. E a pagarne i prezzi.
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