venerdì 20 giugno 2014
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“Se il sindacato non sarà d’accordo ce ne faremo una ragione”. Difficile dire quanto abbia pesato l’atteggiamento di Matteo Renzi verso il sindacato nel suo recente successo elettorale. Non si può negare, tuttavia, che la sua ricerca di una svolta, anche nell’ambito delle relazioni industriali, abbia contribuito alla sua immagine di leader moderno e proiettato al futuro. Con i suoi fulminanti tweet da 140 caratteri e le conferenze stampa da addetto al marketing, ha rottamato i tavoli della concertazione e messo all'angolo quelle liturgie che ancora oggi fanno apparire il sindacato come collocato, cuore e testa, in un Novecento ideologico e industriale che non c’è più. E’ anche attraverso questi messaggi chiave che Renzi ha inteso istituire un canale diretto con i cittadini, mettendo a dura prova la centralità dei corpi intermedi e le logiche sussidiarie della più recente stagione delle nostre relazioni industriali. Se a ciò si aggiunge che dagli anni Ottanta il numero degli attivi è in continua diminuzione, è inevitabile domandarsi quale futuro le organizzazioni sindacali possano ormai costruire per sé non potendo limitarsi a rappresentare ex lavoratori e pensionati.Eppure proprio sulla frontiera della rappresentanza del lavoro che cambia può giocarsi il ritorno della centralità del sindacato. E’ tramontata ormai l’era delle geografie compatte del mercato del lavoro, sono avviati mutevoli e inarrestabili processi di segmentazione, esternalizzazione, delocalizzazione. In questa situazione è normale scoprirsi sprovvisti delle categorie adatte a leggere il cambiamento. Categorie che mancano tanto al sindacato quanto alle associazioni datoriali, tanto ai governi quanto agli operatori.Non dobbiamo però trarre la conclusione che non esistano vie d'uscita. Nell’avventura della lettura del cambiamento il sindacato ha tutti gli strumenti per proporsi come capofila.E’ un errore pensare che la scomparsa dell’operaio-massa novecentesco comporti la morte del sindacato. Di un certo modo di fare sindacato, forse, ma non sicuramente di quel sindacato che si faccia interprete di bisogni reali di rappresentanza riscoprendo la centralità della dimensione soggettiva del lavoro prima ancora che di quella contrattuale e rivendicativa.Una dimensione soggettiva nel senso che riguarda, in primo luogo, lo sviluppo della persona, della sua identità, non di una massa indefinita. L'aiuto alla costruzione dell'identità professionale del singolo lavoratore deve essere al centro dell'azione del sindacato, quale precondizione per cogliere l'identità del lavoro contemporaneo. Anche in questo caso non occorre inventare nuovi modelli, quanto riscoprire le origini: pensiamo alla nascita delle associazioni dei lavoratori come sindacato di mestiere nato per rappresentare una ben precisa identità professionale.Questo implica considerare il sindacato come fautore di spazi di libertà per il lavoratore. Come ciò che gli permette di liberarlo dai vincoli dell’impresa fordista che ancora blocca la sua creatività, la sua inventiva, la sua centralità nel processo produttivo. Riscoprire il ruolo sussidiario del sindacato coincide con riscoprire la centralità del lavoro nella vita della persona.Si capisce quindi che la posta in palio è molto più alta dell’organizzazione dei congressi e degli equilibri da confederazioni. Ci stiamo giocando il futuro del lavoro e, come in ogni gioco, si può scendere in campo o guardare da spettatori.Il sindacato è quindi chiamato a comunicare il cambiamento che vuole essere. Deve esprimersi dimostrando di proporre un’idea chiara e moderna del futuro del lavoro in grado di cavalcare il cambiamento, non di domarlo. Se saprà farlo avrà pochi problemi nel riconquistare quell’ampia parte di lavoratori (e soprattutto di inoccupati), giovani e spaesati, che sono alla ricerca di un punto di riferimento nel vortice di questa grande trasformazione. Non per negarla, ma per seguirla.

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