mercoledì 11 ottobre 2023
L’Istat stima un impatto dello 0,5% sul differenziale della paga oraria, che è all'11%. Sabbadini: «Coinvolto il 20% delle dipendenti» L’Inapp: donne “segregate” in settori a bassa paga
Non basta il salario minimo per chiudere il gap salariale

IMAGOECONOMICA

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Una platea femminile ampia ma effetti esigui sulla riduzione delle diseguaglianze di genere. Il salario minimo, nella sua versione a 9 euro lordi l’ora al centro del dibattito politico da mesi, è una misura pensata (anche) per le donne che in Italia sono insieme ai giovani la categoria di lavoratori poveri per eccellenza. Lavorano poco, il tasso di occupazione galleggia da un paio d’anni al di sopra del 50% con quasi 20 punti di distacco su quella maschile, e hanno impieghi precari, flessibili e meno corposi, con l’incidenza del part-time tripla e pari al 24% rispetto ai colleghi. Guadagnano meno, non tanto per una questione di paga oraria, unico fattore sul quale il salario minimo può agire, ma proprio perché hanno contratti più “leggeri” in termini di inquadramento, scatti di carriera e ore lavorate. L’Istat ha misurato l’impatto che l’introduzione del salario minimo avrebbe sul gender pay gap, tema oggi più che mai d’attualità dopo l’assegnazione del premio Nobel per l’Economia alla statunitense Claudia Goldin per la sua ricerca su duecento anni di discriminazioni negli States e nel resto del mondo. Qualcosa in realtà negli ultimi trent’anni si è mosso: nei paesi Ocse il divario retributivo è diminuito dal 19,5% del 1995 al 12,5% di oggi e l’Italia è in media con questi dati. Ma la strada da fare è ancora tanta. Per Linda Laura Sabbadini, pioniera europea delle statistiche per gli studi di genere, e dal 2022 direttrice del “Dipartimento per lo Sviluppo di metodi e tecnologie per la produzione e diffusione dell’informazione statistica”, gli effetti del salario minimo sarebbero comunque positivi. Per una fetta consistente di lavoratrici dipendenti: circa un milione e mezzo.

«Le donne che sarebbero interessate al salario minimo a 9 euro lordi sono più del 20% delle lavoratrici dipendenti nel settore extragricolo, quindi non poche commenta» è il punto di partenza di Sabbadini che spiega come l’introduzione di un minimo retributivo avrebbe un effetto, «seppur contenuto, sul differenziale retributivo orario di genere, calcolato come differenza tra la retribuzione oraria media delle donne e quella degli uomini rapportata a quest’ultima». Nel 2019 questo valore era pari a -11: il che significa che in media le donne percepiscono una retribuzione oraria dell’11% inferiore a quella dei colleghi, con differenze territoriali ampie che spaziano dal 13,8% nel Nord-Ovest all’8,1% nel Sud. L’introduzione della soglia di 9 euro, diminuirebbe questo differenziale retributivo orario di genere in media dello 0,5% e avrebbe un effetto più marcato nel Mezzogiorno. In particolare la riduzione sarebbe appena dello 0,4 punti nel Nord-Ovest e salirebbe allo 0,9 nel Sud dove la paga oraria è più bassa. «Ovviamente non risolverebbe il problema del lavoro povero - sottolinea Sabbadini - che è dovuto anche a interruzioni frequenti di lavoro precario, part time involontario e combinazione delle due vulnerabilità. Ma contribuirebbe non poco al miglioramento della situazione retributiva delle donne».

Sono più di 4 milioni i dipendenti del privato che non guadagnano 12 mila euro lordi l’anno. Uno su due ha un salario orario povero, l’altro guadagna poco perché lavora poche ore nell’anno. Si stima che siano circa 2 milioni le vittime di un part-time involontario imposto dalle aziende. Fenomeno che colpisce soprattutto le donne.

Secondo l’Istat i potenziali beneficiari del salario minimo sono circa tre milioni, l’Inps parla invece di 1,9 milioni (che salgono a 4,6 se dalla paga oraria si escludono ratei di tredicesima e Tfr). Le categorie in cui i salari sono più bassi sono quelle dei lavoratori domestici, dove le donne sono la stragrande maggioranza, e dell’agricoltura, rispettivamente con il 90% e il 35% dei lavoratori sotto la soglia minima.

Anche l’Inapp (l’istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) ha indagato l’impatto del salario minimo sul pay gap di genere con un’analisi dettagliata condotta nel 2021. Nei 21 Paesi europei nei quali il salario minimo è stato introdotto il 60% delle percettrici sono donne che partivano da retribuzioni sotto soglia. In particolare, in Germania, Irlanda, Portogallo e Polonia, dove si è concentrata l’osservazione dei ricercatori Inapp, si sono rilevati effetti positivi sulla riduzione del gender pay gap. In Germania, uno degli ultimi Paesi Ue a introdurre il salario minimo, il pay gap si è ridotto dal 19,6 al 17,1 per cento. In Irlanda il gap è crollato dal 26% è sceso al 5%. Secondo i ricercatori in Italia, con un salario minimo a 9 euro lordi l’ora, il 16,5% degli uomini impiegati a tempo pieno avrebbe un adeguamento contro il 23,3% delle donne. La potenziale platea di beneficiari sarebbe costituita al 56% da donne, ma considerando il tasso di occupazione differente avrebbe un’incidenza maggiore.

Monica Esposito, ricercatrice dell’Inapp spiega che l’istituto sta lavorando ad un’analisi sul gap retributivo di genere e sui modelli più ideonei a misurarlo. «Il salario minimo è una delle variabili ma per ridurre il gender pay gap dobbiamo tener presente che le caratteristiche della partecipazione delle donne al lavoro che sono del tutto diverse rispetto a quelle maschili. Al di là delle polarizzazioni politiche il Cnel nei giorni scorsi ha ribadito il principio della contrattazione collettiva come strumento principale per la definizione dei livelli retributivi».

Le donne hanno carriere intermittenti, con molte interruzioni e in genere si collocano nella parte bassa della gerarchia salariale. Sono vittime di una doppia penalizzazione. «Possiamo parlare di una segregazione verticale, vale a dire che l’accesso ai posti di comando è spesso bloccato, e una, forse ancora più impattante, a livello orizzontale. Che significa una concentrazione in determinati settori, meno remunerativi, ad esempio quello dei servizi alla persona». Il salario minimo avrebbe come protagoniste le donne ma servono interventi strutturali per erodere distorsioni costruite nei secoli. «Servirebbe un approccio di genere in sede di contrattazione collettiva: ci sono settori altamente femminilizzati che guarda caso sono quelli a basso reddito e a forte precarizzazione» spiega ancora Esposito.

La ricercatrice mette poi l’accento sui rischi sociali che potrebbe avere l’estensione del salario minimo a colf e badanti. «In molti Paesi che lo hanno introdotto questi lavoratori, che in linea di massima sono donne sotto-pagate sono sono state escluse per evitare ripercussioni economiche pesanti sulle famiglie. Il rischio in questo caso è che,senza una detassazione adeguata a sostegno dei datori di lavoro, si vada ad implementare il lavoro sommerso».

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