sabato 21 gennaio 2023
Scarsa produttività e stipendi bassi hanno accentuato le disuguaglianze. Fadda (Inapp): «La riduzione del cuneo fiscale è un passo importante. Italia promossa a metà per qualità del lavoro»
Un dipendente controlla la busta paga

Un dipendente controlla la busta paga - Archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

L’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9%), mentre in Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1%. In queste tre decadi è aumentato il divario tra la crescita media dei salari nei Paesi Ocse e la crescita dei salari in Italia, progressivamente dal -14,6% (1990-2000), al -15,1% (2000-2010) e, infine, al -19,6% (2010-2020). Perché? Hanno influito diversi fattori a partire dalla competizione con i paesi esportatori di prodotti a basso valore aggiunto, al ricorso alla manodopera a basso costo e bassa qualificazione che ha schiacciato verso il basso contemporaneamente i salari e il livello di produttività nel nostro sistema produttivo. Anche la produttività del lavoro, infatti, ha registrato in Italia una dinamica molto più lenta degli altri paesi europei, e tuttavia la pur bassa crescita della produttività è stata negli ultimi anni superiore a quella dei salari, rivelando un mancato aggancio dei salari alla performance del lavoro. In pratica i salari italiani sono “in gabbia” intrappolati tra scarsa produttività e esigenze di riduzione dei costi da parte delle imprese. «Certamente la riduzione del cuneo fiscale inserita nella legge di Bilancio è un passo importante - spiega il professor Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) - perché fa crescere il salario netto senza aumentare il costo del lavoro per le imprese. Tuttavia, è ora necessaria una energica politica industriale finalizzata a rimuovere le cause della stagnazione della produttività e a stimolare la dinamica salariale, con beneficio per la crescita della domanda aggregata e del livello di attività economica». Molteplici le cause della bassa produttività e come tra questi giochi un ruolo decisivo il mismatch, inteso nel duplice senso della carenza di competenze richieste dalle imprese, ma anche di sottoutilizzazione delle competenze disponibili. Ciò testimonia anche la debolezza del nostro tessuto produttivo che non valorizza adeguatamente le competenze dei lavoratori istruiti: l'Italia è l'unico Paese del G7 in cui la maggior parte dei laureati è impiegata in attività di routine. Risolvere il problema di questo doppio mismatch (disallineamento) in Italia potrebbe produrre una crescita della produttività del 10%. Ai fini della produttività stagnante sono rilevanti anche le caratteristiche dei nostri imprenditori. Un lavoro recente realizzato in sede Inapp dimostra che le caratteristiche degli imprenditori sono di fondamentale importanza per l’adozione di tecnologie innovative e per i possibili aumenti di produttività che ne deriverebbero. In particolare, imprenditori più giovani, più istruiti e di genere femminile sono più sensibili all'evoluzione della frontiera tecnologica. Le aziende a conduzione familiare il cui leader è un membro della famiglia sono meno inclini a adottare innovazioni. La scarsa produttività e i salari bassi nell’ultimo trentennio hanno poi accentuato le disuguaglianze. Prendendo infatti come misura di riferimento il reddito lordo, ovvero la somma dei redditi di mercato e da pensione, senza considerare le imposte e i trasferimenti monetari non pensionistici, i dati messi a disposizione dal World Inequality Database (Wid) mostrano che nel periodo 1990-2021, in Italia, la quota di reddito totale detenuta dal 50% più povero della popolazione è in costante calo: si è passati dal 18,9% del 1990 al 16,6% del 2021. Al contrario, la quota del reddito detenuta dal top 1% è aumentata di circa il 60%. «C’è chi sostiene che introdurre un salario minimo costituirebbe un elemento di rigidità – aggiunge Fadda - ma il salario minimo, pur nelle complessità da risolvere, va considerato piuttosto come una base da cui partire per costruire un sistema di diritti e condizioni lavorative decenti, che può benissimo coesistere con misure e intese che incrementino produttività e liberino risorse per un aumento delle retribuzioni. Questo è ancora più urgente con l’inflazione che marcia a doppia cifra e un potere d’acquisto sempre più eroso». Per questo sarebbe necessaria la revisione degli accordi che regolano la contrattazione collettiva a partire dal “Protocollo Ciampi” del ’93 sia a livello nazionale (primo livello) sia a livello aziendale (secondo livello), che è scarsamente utilizzata. Occorre anche vigilare sugli effetti “regressivi” dell’inflazione sulla fiscalità, sia attraverso l’Iva, sia attraverso il cosiddetto “drenaggio fiscale” (fiscal drag) causato dal superamento delle aliquote fiscali a seguito dell’aumento dei redditi in valore nominale. Mentre la V indagine Inapp promuove l'Italia a metà per la qualità del lavoro. Bene aziende e lavoratori al Centro Nord, indietro Mezzogiorno, lavoratrici e giovani. È questo il risultato delle analisi dei ricercatori dell’Inapp su imprese e lavoratori che colloca il nostro Paese in una sorta di "terra di mezzo" tra quelli dove la qualità del lavoro è più elevata, come i Paesi scandinavi, ma anche Germania, Austria, Svizzera e i Paesi dell’Est Europa che sono in fondo alla classifica soprattutto per una scarsa protezione nel mercato del lavoro e dell’ambiente lavorativo (Ocse). In particolare, il 24% dei nostri lavoratori percepisce a rischio la propria salute sul posto di lavoro, questo aspetto risulta più preoccupante nel Mezzogiorno (28%) e tra i dipendenti pubblici (30%). Inoltre, più di un terzo dei lavoratori (37%) dichiara di non avere alcuna flessibilità rispetto all’orario, questo aspetto risulta addirittura più marcato tra le donne (42%) specialmente se dipendenti nel pubblico (50%). Un ulteriore elemento critico evidenziato dai nostri lavoratori riguarda l’immobilismo nelle carriere professionali, che coinvolge il 69% degli occupati e presenta valori addirittura maggiori tra i dipendenti pubblici e tra i giovani 18-34enni (73%). A tutto ciò si aggiunge una crescente routinizzazione delle attività lavorative, che riguarda in particolar modo i lavoratori del Mezzogiorno, dove il 71% degli occupati dichiara di svolgere attività prevalentemente ripetitive e coloro incardinati in realtà produttive di piccolissime dimensioni (1-5 lavoratori) (68%). L'indagine ha coinvolto oltre 15mila occupati (sopra i 17 anni) e 5mila imprese sul territorio nazionale. Per aumentare la qualità del lavoro le analisi indicano che bisogna migliorare la gestione delle risorse umane e puntare sull’innovazione. Chi lo ha fatto, parliamo dell’8% delle imprese italiane, ha visto accrescere la propria competitività nei mercati e contemporaneamente la qualità del lavoro per i propri dipendenti. Sono le imprese smart (intelligenti) come ribattezzate dall’Inapp. Imprese che si caratterizzano anche per un’ampia partecipazione sia nella pianificazione delle attività (54,1% dei casi), che nella discussione dei cambiamenti organizzativi (73,6%) e attenzione al tema del life work balance (l’81% delle imprese ritiene responsabilità dell’azienda la conciliazione vita privata-lavoro). Per queste imprese la qualità del lavoro non costituisce un costo, piuttosto un volano. Tra le imprese “smart” l’introduzione di cambiamenti e innovazioni ha generato nel 85% dei casi un incremento della produttività e nel 78% di fatturato, ma anche, in circa il 70% dei casi, un aumento sia del benessere che della motivazione dei lavoratori. In queste aziende, inoltre i lavoratori hanno una maggiore stabilità lavorativa (nel 91% di esse non sono presenti lavoratori a tempo determinato, e nel 78% dei casi il precariato porta alla successiva stabilizzazione).

Generazioni a confronto sulle retribuzioni

Le differenze generazionali nel mondo del lavoro appaiono rilevanti sotto molti aspetti, a cominciare da quello retributivo. A parità di inquadramento, infatti, le retribuzioni medie di Babyboomer, Gen X e Gen Y, hanno sensibili differenze, tanto da individuare un vero e proprio “generational” pay gap. Questo quanto rilevato da Odm Consulting nell’aggiornamento dell’indagine retributiva al primo semestre 2022. All’interno dell’indagine è stato realizzato un focus sulle Rba-Retribuzioni lorde fisse annue medie di Dirigenti, Quadri, Impiegati e Operati, suddivisi per alcuni cluster di età: Babyboomer (>57 anni); Gen X (41-57 anni); Gen Y (26-40 anni); Gen Z (>= 25 anni). Questi cluster sono poi stati messi a confronto tra loro all’interno di ciascun inquadramento. Il cluster Gen Z non è stato preso in considerazione per i due inquadramenti più alti perché, considerato il recente ingresso nel mondo del lavoro, non sono presenti in maniera significativa tra Dirigenti e Quadri. Per quanto riguarda i Dirigenti, la media della Rba si attesta su 119.173 euro. Quella dei Babyboomer è superiore del 6%, mentre sotto la media si attesta quella di Gen X (-1,5%) e Gen Y (-18,7%). Il pay gap tra la generazione più anziana e la più giovane è di -23,3%. Nel caso dei Quadri, la cui retribuzione media è di 61.004 euro, sono al di sopra della media le Rba sia di Babyboomer (+4,7%) sia di Gen X (+1,2%). 9,2 punti percentuali sotto la media invece quella di lavoratori e lavoratrici della Gen Y. In questo inquadramento il generational pay gap è il più basso: “solo” -13,3%. Per quanto riguarda Impiegati e Operai è possibile prendere in considerazione anche il cluster di età della Gen Z, ossia quella dei giovani e delle giovani al di sotto dei 25 anni, l’ultima ad aver fatto ingresso sul mercato del lavoro. Il significativo gap retributivo tra i lavoratori di questa generazione e i Babyboomer va quindi considerato tenendo conto anche della notevole differenza di anni di esperienza. Nel dettaglio, la Rba media degli impiegati è di 33.514 euro. Al di sopra Babyboomer (17,5%) e Gen X (12,2%), in linea la Gen Y (-1,6%) e al di sotto la Gen Z (-23,1%). Il gap tra Babyboomer e Gen X è del -17,5%, mentre tra i primi e la Gen Y supera addirittura il -34%. Per quanto riguarda gli Operai, invece, la retribuzione media è 27.631 euro. Babyboomer (+17,4%), Gen X (+12,9%) e Gen Y (+2,7%) sono tutti al di sopra della media; al di sotto solo la Gen Z con -11,6%. Se confrontate, le retribuzioni medie di Babyboomer e Gen X evidenziano un gap del -14,7%, che arriva al -24,7% nel caso della Gen Z.

La crescita delle retribuzioni "mangiata" dall'inflazione

Tuttavia, l’incremento medio della retribuzione fissa registrato nel 2022 in Italia è pari al 3%, ma l’inflazione stimata a fine anno al 7% (Nadef) incide drasticamente su questo dato di crescita e porta il salario reale dei lavoratori dipendenti italiani quindi a diminuire del 4%. È un dato eclatante che emerge dall’Osservatorio sulla dinamica retributiva di Wtw (ex Willis Towers Watson) - società leader nella consulenza, nel brokeraggio e nell’offerta di soluzioni alle imprese e alle istituzioni - condotto su un campione di oltre 640 aziende italiane di medie o grandi dimensioni. I budget aziendali per i salari sono stati quindi programmati nel 2022 con un aumento medio del 3% in Italia, in linea con i principali paesi europei, quali ad esempio Austria (+3,2%), Francia, (+3%), Germania e Olanda (+3,5%), Spagna (+3,3%) e Gran Bretagna (+3,9%). Ma l’inflazione colpisce profondamente i salari perché supera di molto gli aumenti programmati dalle aziende in Italia. Più in generale, si rileva che in tutta l’Europa quest’anno i livelli di budget programmati dalle aziende sono stati sensibilmente più bassi rispetto al tasso di inflazione (a eccezione della Svizzera). «Veniamo da anni di crescita retributiva contenuta e lineare, a fronte di un tasso di inflazione basso, dove assistiamo a un aumento fisiologico delle retribuzioni dovuto prevalentemente a scatti di anzianità e aumenti contrattuali, in particolare per le retribuzioni più basse mentre è stato lasciato poco spazio al riconoscimento economico del merito – dichiara Edoardo Cesarini, amministratore delegato di Wtw -. Ora però questo modello lineare è messo in crisi dalla crescita molto alta del tasso di inflazione che ha impattato fortemente sulle retribuzioni e ci pone di fronte a un nuovo modello a più variabili e incognite». Nel 2022 le aziende hanno cercato di migliorare il potere d’acquisto dei propri dipendenti intervenendo con incrementi sulla retribuzione fissa: il 60% delle aziende si è orientato su interventi one-off, ovvero temporanei, di natura monetaria; il 40% invece si è orientato su misure di tipo più strutturale e duraturo, questo vale specialmente per i settori con una profittabilità più alta (per esempio Telecomunicazioni, Oil & Gas; ma anche Automotive). Gli aumenti retributivi del mercato programmati in Italia per il 2023 sono previsti in crescita con una media del 3,9%. Rispetto a questo dato, ai due estremi troviamo il settore Tmt (Technology-Media-Telecomunicazioni) che registra la crescita più alta, del 4,6% (+0,7% rispetto alla media) e il settore Retail che registra la crescita più bassa, del 3.2% (-0,7% rispetto alla media). I settori in cui gli aumenti retributivi cresceranno di meno, oltre al Retail, saranno l’Energy, con un +3,3% e il mondo dei beni di consumo durevoli, con un +3,4%. Tra i settori in cui gli aumenti retributivi cresceranno di più rispetto alla media, oltre al Tmt, troviamo invece l’Assicurativo, la cui crescita prevista per il 2023 è del 4,4% e l’Oil & Gas che crescerà nell’ordine del 4,2%. È il secondo anno consecutivo in cui in Italia il tasso di inflazione supera l’incremento medio delle retribuzioni: una situazione talmente particolare che non si verificava da 30 anni, ovvero dai primi anni Novanta. A partire dal 2010, l’aumento medio delle retribuzioni in Italia è sempre stato infatti superiore rispetto all’inflazione, ininterrottamente fino al 2021. «Il mercato del lavoro italiano nel 2022 è stato comunque decisamente competitivo e le aziende non hanno mai smesso di cercare i profili più specializzati, come per esempio ingegneri, professionisti dell’It per lo sviluppo di app, la cybersecurity o per l’e-commerce - sottolinea Rodolfo Monni, responsabile indagini retributive di Wtw –. La dinamica retributiva per la componente fissa della retribuzione ha comportato una crescita dei salari, al netto dell’inflazione, ma il divario di genere è ancora forte nel nostro Paese: nell’87% delle aziende la media del salario fisso delle donne è infatti ancora oggi inferiore a quella degli uomini. È auspicabile un’inversione di tendenza su questo fronte». La crescita dei salari ha subìto una forte accelerazione all'inizio del 2022, in sei delle principali economie dell’Eurozona, tra cui l’Italia. Un tasso di crescita medio ponderato più che raddoppiato, passato da circa il 2% alla fine del 2021 a oltre il 4% a fine estate 2022, prima di stabilizzarsi al 5,2% a ottobre. La conferma emerge da Wage growth in euro area countries: evidence from job ads, l’Economic Letter pubblicata dalla Banca centrale d'Irlanda, in collaborazione con Indeed – portale numero uno al mondo per chi cerca e offre lavoro. Il documento, redatto dall'economista della Banca centrale Reamonn Lydon e dall'economista di Indeed Pawel Adrjan, esamina le tendenze dei salari pubblicati su Indeed in Francia, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Spagna - Paesi che insieme rappresentano oltre l'80% dell'occupazione nell'area dell'euro - e anche nel Regno Unito. L'andamento dei salari negli annunci è un indicatore tempestivo delle tendenze di crescita delle retribuzioni e dell’andamento del mercato del lavoro, fornendo spunti di rilievo anche per le Banche Centrali che lo monitorano in relazione all’inflazione. Senza contare che gli stipendi dei nuovi assunti possono fornire input interessanti sulla richiesta di forza lavoro. Dal documento emerge che la crescita dei salari ha registrato una forte accelerata nel primo semestre del 2022, prima di rallentare leggermente nel terzo trimestre, raggiungendo il 5,2% su base annua in ottobre — più di tre volte il tasso pre-pandemia. Per i singoli Paesi dell'area dell'euro, la crescita di ottobre è stata più alta in Germania (7,1%), seguita da Francia (5,0%), Irlanda (4,7%), Italia (4,2%), Paesi Bassi (4,0%) e Spagna (3,5%).

Direttori del personale favorevoli al salario minimo

I direttori del personale non hanno “paura” del salario minimo e al contrario ne colgono le diverse opportunità: il 70% è favorevole alla sua introduzione. Possiamo così sintetizzare il sentiment prevalente dei rispondenti all’indagine promossa dall’Aidp, l’Associazione per la direzione del personale, sul tema del salario minimo. Da un lato i risultati dell’indagine evidenziano una sostanziale e diffusa consapevolezza che l’introduzione di tale misura non inciderà negativamente nel nostro sistema di relazioni sindacali: il 74% dei rispondenti, infatti, ritiene che non impatterà sull’aumento del costo del lavoro, oltre l’86% che le relazioni sindacali non verranno indebolite o inasprite e il 66% che la misura non allontanerà le imprese dal contratto nazionale. Dall’altro prevale la convinzione che il salario minimo avrà effetti benefici sui una specifica categoria di lavoratori più deboli e meno qualificati: il 61% ritiene, infatti, che il salario minimo ridurrà la disuguaglianza nei livelli salariali aumentando il salario dei lavoratori meno retribuiti, circa il 71% che ne trarranno beneficio soprattutto i lavoratori meno qualificati e protetti. Da evidenziare, inoltre, che un’elevata percentuale di rispondenti (il 70%) ritiene necessario legare il salario minimo al costo della vita su base regionale. Questi i dati principali emersi dall’indagine di Aidp, a cui hanno risposto circa 600 direttori del personale, curata del Centro Ricerche Aidp guidato dal professor Umberto Frigelli. «Il punto di partenza di ogni dibattito intorno sul salario minimo deve tener conto della specificità italiana. Parliamo di una lunga storia di relazioni sindacali e di contrattazione e che molti paesi europei hanno in misura minore, che ha coperto, e copre, gran parte del mercato del lavoro con diritti e doveri, compreso ovviamente il tema salariale, regolati dai contratti collettivi nazionali ampiamente diffusi – afferma Matilde Marandola, presidente nazionale di Aidp -. La vera questione è capire come garantire anche a quella parte minoritaria del nostro sistema che è fuori dai contratti nazionali un’adeguata tutela salariale. In questo senso l’introduzione di una misura che vada in questa direzione come il salario minimo per legge può avere una sua ragion d’essere. La sua introduzione, tuttavia, deve avvenire in modo equilibrato e virtuoso all’interno di un sistema come il nostro in cui il ruolo e la funzione regolatrice delle parti sociali sono largamente estesi». Dall’indagine emerge una sostanziale neutralità del salario minimo rispetto all’incidenza che potrebbe avere sui diversi capitoli e trend del nostro mercato del lavoro, chiamati in causa dal dibattito pubblico sul tema. Il 72% ritiene che la misura non diminuirà la percentuale di dimissioni volontarie, il 67% che non ci sarà nessun impatto sulla diminuzione del lavoro nero e il 50% che questa soluzione non ridurrà l’accesso al reddito di cittadinanza contro il 32%, invece, che ritiene questa opzione possibile.

Il decalogo dei lavoratori

La corretta tipologia contrattuale e la giusta dimensione dell’azienda sono gli elementi chiave del lavoro dei sogni. Dopo due anni di emergenza sanitaria, gran parte dei lavoratori è alla ricerca della stabilità. I lavoratori non hanno dubbi: l’80% degli intervistati sceglierebbe un posto fisso, un terzo (34%) desidera un contratto temporaneo e solo il 15% potrebbe accontentarsi di qualunque tipologia contrattuale. Anche a livello di dimensioni dell’azienda chi ha partecipato al sondaggio ha le idee piuttosto chiare: le medie imprese sono scelte come dimensione ideale dal 41% dei rispondenti. Seguono le grandi aziende (30%) e le piccole (25%). «Il mercato del lavoro – precisa Fabrizio Travaglini, managing director di PageGroup – è profondamente cambiato negli ultimi due anni. Ci stiamo spostando verso quella che potremmo definire economia della conoscenza, all’interno della quale acquisire competenze per avere successo è fondamentale. Non ci sorprende, dunque, che il 71% di chi ha risposto alla nostra indagine abbia inserito formazione e avanzamento di carriera tra i benefit più desiderabili. C’è, poi, un altro aspetto che le aziende non possono trascurare. Al giorno d’oggi i candidati non cercano soltanto un aumento di stipendio: il 75%, infatti, dichiara di voler lavorare per una realtà impegnata in materia di responsabilità sociale d’impresa o Csr, che si concretizza nel rispetto dei diritti umani (97%), dell’ambiente (96%) e nella responsabilità economica (94%)». Intanto la piattaforma di tutoring on line Fluentify (www.fluentify.com) - Best Workplaces Europe 2022 - ha costruito un decalogo sulle dieci cose a cui i lavoratori italiani non vogliono rinunciare nel 2023 che va oltre i concetti di lavoro agile e flessibilità:

1. Settimana corta contrattualizzata: lavorare meno ore o quattro giorni a parità di stipendio. È quello che il 56% degli italiani[ chiede alle imprese tricolore ai fini di avere più tempo libero e di ridurre lo stress.

2. Workation: lavorare da remoto durante un viaggio, un nuovo concetto di flessibilità supportato dalla tecnologia che consente ai lavoratori di aumentare la frequenza dei loro spostamenti.

3. Retribuzione competitiva e scatti di livello: i giovani cambiano lavoro sempre più spesso per ottenere una RAL più alta. Questo perché le aziende non pianificano scatti di livello e, se lo fanno, non premiano le risorse.

4. Contratto a tempo indeterminato: per quanto il mondo del lavoro possa essere avanti, i giovani continuano ad aver bisogno di un contratto a tempo indeterminato per poter progettare il proprio futuro: dall’affitto di una casa a una richiesta di prestito per comprare un’auto.

5. Premi: il dipendente si sente valorizzato quando qualcuno nota e premia il suo impegno. Aumenti di stipendio, bonus, buoni acquisto, buoni regalo o benefit, il lavoratore non vuole che i suoi sforzi passino inosservati (clienti nuovi e promesse di aumento di salario o di responsabilità non sono premi).

6. Valutazione periodica delle prestazioni: quanti capi premiano i dipendenti più meritevoli? Quanti fanno finta di non vedere il loro valore? Una valutazione periodica delle prestazioni dei dipendenti può favorire un meccanismo di premialità genuino.

7. Iniziative a sostegno della famiglia: congedo e ore di permesso retribuiti al 100% per l’assistenza familiare e strutture di accoglienza per bambini sono solo alcune iniziative a sostegno della famiglia che i lavoratori chiedono alle imprese.

8. Benessere fisico e mentale: abbonamento gratuito alla palestra più vicina a casa, sedute gratuite di psicoterapia, favorire il benessere fisico e mentale di un lavoratore aiuta la salute di tutta l’azienda.

9. Ore libere retribuite: tempo libero e retribuito per attività di volontariato a sostegno dell’ambiente e della società, sempre più imprese stanno regalando il tempo dei propri collaboratori a cause di interesse comune.

10. Clima di lavoro sereno: se i punti forti sono positività e collaborazione, i dipendenti si sentono a loro agio e soddisfatti del proprio lavoro. In un clima di lavoro sereno, i lavoratori sono rispettati e valorizzati e c'è una comunicazione aperta e trasparente tra i lavoratori e i manager. «Se un manager è sempre impegnato, lavora nel weekend e pretende che le sue persone facciano lo stesso, senza rispetto per i tempi personali o familiari, significa che non sa svolgere in maniera efficiente il suo lavoro - conclude Claudio Bosco, cofondatore e coo di Fluentify -. Se invece si ha una chiara progettualità, se tutti sono aggiornati rispetto agli obiettivi e agli avanzamenti, non si creeranno colli di bottiglia e il clima aziendale sarà migliore. Il 2023 dovrebbe portare tutto questo all’interno delle imprese: non tutte le aziende possono permettersi agilmente questi cambiamenti per via della loro struttura o anzianità strutturale, ma tutte quelle che invece possono sostenere queste evoluzioni dovrebbero accoglierle con coraggio poiché ne trarrebbero sicuramente beneficio, sia loro stessi sia tutti i collaboratori».

Diverse opportunità per il 2023 e per i prossimi anni

Il nuovo piano industriale di Ama Spa è stato approvato all'unanimità dal Consiglio di amministrazione dell'azienda. Il piano pluriennale varato dal Cda riguarda gli anni 2023-2028 e si articola su tre assi strategici: miglioramento del decoro urbano; incremento della raccolta differenziata; sviluppo della logistica e dell'impiantistica. Per raggiungere questi obiettivi, sono​previsti investimenti pari a oltre 700milioni di euro. La riorganizzazione dei servizi passerà anche dal rinnovamento della flotta aziendale, con l'arrivo di circa 300 mezzi nuovi già nel 2023 e dal piano assunzioni: fino a 600 lavoratori e lavoratrici in più, al netto del turnover, entro il Giubileo del 2025. Sempre a Roma, Cinecittà World ha avviato un nuovo piano che prevede una crescita da uno a tre parchi. Dopo Cinecittà World sarà la volta della Roma imperiale a Roma World e del parco acquatico Aqua World. La riapertura di Cinecittà World è prevista sabato 18 marzo e la proposta per il nuovo anno sarà ricca e diversificata. Il 24 marzo si spalancano anche le porte di Roma World. Dal 1° giugno aprirà Aqua World. Per maggiori informazioni: www.cinecittaworld.it e www.romaworld.com. Inaugurato a Bovolone (Verona) il cantiere del nuovo stabilimento di​ Eurocoil, azienda fondata nel 1995, una delle principali realtà fornitrici di batterie alettate, condensatori remoti e "dry cooler" per il mercato europeo della refrigerazione e del condizionamento. Nella nuova area produttiva di oltre 9mila mila metri quadrati lavoreranno più di 160 persone, assunte in un arco temporale di circa sette anni. Electrolux e i sindacati hanno raggiunto una ipotesi di accordo per l'avvio del nuovo piano industriale a Solaro che, se approvato dai lavoratori, porterà nella fabbrica in provincia di Milano la nuova piattaforma di lavastoviglie di media ed alta gamma a fronte di nuove condizioni di competitività. L'intesa, si legge in una nota di Fiom, Fim e Uilm, prevede un investimento di 102 milioni di euro, con interventi di automazione sulle linee e il rinnovo dei reparti tecnologici ed è propedeutico al lancio di una nuova piattaforma di prodotto. A fronte di ciò è prevista una produzione oraria di 108 pezzi e, allo scopo di assicurare che i carichi di lavoro e gli indici di sicurezza non peggiorino, è programmata l'assunzione di 100 lavoratori addetti alla produzione, di cui 80 sulle linee di montaggio, 10 in magazzino e 10 nelle aree tecnologiche. Le assunzioni partiranno a inizio 2024 e poi proseguiranno fino al 2026, man mano che entreranno in funzione le nuove linee, e saranno rivolte prioritariamente ai lavoratori che stanno lavorando o che hanno già lavorato con contratto a termine a partire dal 2020. Mamazen (https://mamazen.it/), fondata a fine 2018, ha avviato una nuova Call for Ceo&Founders con l’obiettivo di selezionare cinque profili di alto livello che prendano le redini di tre progetti già validati. «Cerchiamo founder esperti e motivati a cui affidare le start up che creiamo solo dopo attente analisi e con la certezza che sappiano rispondere a reali esigenze di mercato - dichiara Farhad Alessandro Mohammadi, ceo e cofondatore di Mamazen -. Per questo, il modello dello Startup Studio mitiga il rischio di fallimento di una start up, riducendolo dall’86% al 40% e dimezza il tempo necessario per arrivare all’exit da otto a 4,3 anni». I candidati selezionati potranno lavorare da remoto, non è obbligatorio vivere a Torino. Sarà richiesta la presenza su Torino solo in caso di riunioni specifiche, oltre che la disponibilità a spostarsi per ritiri e trasferte aziendali in Italia ed Europa. È possibile inviare la propria candidatura a https://www.mamazen.it/startup-studio-career entro fine febbraio.







© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: