giovedì 9 maggio 2024
Il "Salary Satisfaction Report 2024" chiama le aziende all'azione, sottolineando l'urgenza di adottare politiche retributive che tengano conto della realtà economica e delle aspettative dei lavoratori
Un lavoratore controlla la busta paga

Un lavoratore controlla la busta paga - Archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

Contro gli stipendi inadeguati ci può essere un rimedio. Non si tratta di tornare alle "gabbie" o alla differenza di trattamento economico per chi risiede al Nord rispetto a chi lavora al Sud. Ma di salari giusti. Accordi decentrati e welfare aziendale possono infatti sostenere i lavoratori e le loro famiglie. «Occorre avere il coraggio di tenere insieme la necessità del salario minimo per rispondere al lavoro povero, ma anche rafforzare la contrattazione nazionale per dare risposta a categorie che hanno contratti scaduti da anni, non rinnovati e tanto meno aggiornati al costo della vita». Lo sottolinea il vicepresidente della Cei e vescovo di Cassano all'Ionio monsignor Francesco Savino. Per il vicepresidente dei vescovi italiani «il contratto nazionale rappresenta lo strumento principale per tutelare il salario reale. Per un'economia sana è indispensabile che i salari siano in linea con l'inflazione reale e con la produttività redistribuita al lavoro». Per monsignor Savino è anche fondamentale puntare sulla formazione, sulla tutela dell'ambiente e anche su «un ricambio intergenerazionale; occorre avere il coraggio di guardare alle tecnologie come strumenti necessari per liberarci da mansioni pesanti e oppressive verso nuovi lavori».

Il Salary Satisfaction Report 2024 chiama le aziende all'azione, sottolineando l'urgenza di adottare politiche retributive che tengano conto della realtà economica e delle aspettative dei lavoratori. Nonostante un leggero incremento nella soddisfazione complessiva, registrato da quattro lavoratori su dieci, prevale una marcata e persistente insoddisfazione, particolarmente accentuata tra coloro che ricevono esclusivamente una retribuzione fissa. Questo fenomeno evidenzia l'urgente necessità per le aziende di adottare un approccio più ampio alla retribuzione, che integri benefit, incentivi variabili. In un contesto dove l’inflazione continua a erodere il potere di acquisto, nonostante un aumento medio delle retribuzioni dell'1,8%, più della metà dei rispondenti indica che la propria azienda non è intervenuta a sostegno dei salari. Questa discrepanza tra le aspettative dei lavoratori e le politiche retributive applicate dalle aziende aumenta la sensazione di insicurezza e di insoddisfazione ed evidenzia una crescente richiesta di trasparenza, equità e riconoscimento del merito. Il report rivela infatti un ampio dissenso riguardo alla mancanza di meritocrazia nelle pratiche aziendali. L'indice di soddisfazione relativo alla percezione di meritocrazia, che si attesta a soli 3,4 su dieci, denota una diffusa insoddisfazione verso i criteri di riconoscimento e promozione interni. Questa situazione compromette anche la comprensione e l'accettazione delle politiche retributive da parte dei dipendenti, aggravando la percezione di ingiustizia. A livello di genere, in media le donne sono più insoddisfatte rispetto agli uomini in tutte le dimensioni esaminate, sollevando questioni di equità e meritocrazia che richiedono urgenti attenzioni e interventi mirati da parte delle aziende per garantire un ambiente di lavoro inclusivo e paritario.

Guardando al futuro, la fiducia espressa da circa la metà dei partecipanti verso un miglioramento delle prospettive lavorative nel 2024 rappresenta un segnale positivo, anche se le aspettative sul fronte salariale rimangono moderate. Questo dualismo riflette la complessità del panorama lavorativo attuale, dove il desiderio di un ambiente lavorativo migliore convive con la consapevolezza delle sfide economiche persistenti. L’importanza di un approccio che valorizzi gli elementi tangibili e intangibili, come benefit, opportunità di crescita professionale e un ambiente lavorativo stimolante, si rivela cruciale per aumentare la soddisfazione dei dipendenti e affrontare le problematiche di equità e meritocrazia. L'obiettivo è di promuovere non solo la soddisfazione retributiva ma anche il benessere generale e l'engagement dei dipendenti, fondamentali per la competitività aziendale in un mercato in costante evoluzione. In conclusione, il report invita a un ripensamento delle strategie retributive, ponendo le basi per un dialogo costruttivo tra lavoratori e datori di lavoro volto a promuovere un ambiente lavorativo equo, inclusivo e motivante.

Per più di un lavoratore su due (il 58%) la retribuzione attuale è percepita inadeguata alla propria mansione/anzianità di servizio e il 55% degli operai valuta negativamente l'attenzione prestata dalla propria azienda ai temi della sicurezza sul lavoro. È quanto emerge dall'Indagine sui lavoratori a cura dell'Istituto Piepoli per il sindacato Ugl. La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, la sicurezza nei luoghi di lavoro e l'adeguatezza della retribuzione, sono i temi al centro della ricerca. Nel dettaglio, la percezione negativa riguardo ala retribuzione tocca il 65% degli impiegati, per arrivare al 75% tra gli operai. Per il potere quasi il 70% degli individui ne accusa una perdita.

Anche nel Rapporto del Cnel sul mercato del lavoro si affronta la questione salariale. Nel 2023 le retribuzioni orarie stabilite dalla contrattazione nazionale sono cresciute del 2,4% nel settore privato non agricolo e del 3,1% nel complesso dell'economia, a fronte di un aumento dei prezzi del 5,9%. Tra il 1991 e il 2022 i salari reali sono rimasti sostanzialmente stagnanti (con una crescita dell'1%) a fronte dell'aumento del 32,55% in media registrato in area Ocse. Negli ultimi decenni però la produttività italiana è cresciuta meno di quanto avvenuto in Francia e Germania. Prima della crisi pandemica, nel periodo compreso tra il 2000 e il 2020, la produttività è infatti aumentata solo dello 0,33% in media all'anno nel nostro Paese, contro l'1% in Germania e lo 0,94 in Francia.

Il confronto su 12 Paesi

In un momento storico in cui si parla tanto di mismatch, con molte aziende italiane che hanno evidenti difficoltà nel trovare nuovi talenti, diventa fondamentale per manager e imprenditori monitorare i livelli di soddisfazione dei propri dipendenti per riuscire, quantomeno, a trattenerli, adottando misure per creare un ambiente attrattivo e premiante. Secondo l’analisi di Hays Italia condotta sui professionisti (prevalentemente middle e top management) di 12 Paesi, nonostante nel 2023 la percentuale degli italiani soddisfatti del lavoro attuale sia cresciuta, raggiungendo il 61% (nel 2022 era del 47%), l’Italia si colloca al penultimo posto tra le nazioni analizzate, seguita solo dal Portogallo (49%) e ben lontana dai Paesi più “virtuosi” come la Repubblica Ceca (78%), Romania (73%) e Regno Unito (73%). Anche sotto il profilo retributivo, in Italia i soddisfatti del loro salario rappresentano solo il 57% del campione, un dato comunque migliore rispetto al Portogallo (40%), ma ancora una volta nettamente inferiore alla Repubblica Ceca (77%). Una fotografia che si inserisce in un contesto del mercato del lavoro italiano dinamico, con il tasso di occupazione che a febbraio sale al 61,9% e che tra il 2024 e il 2028 potrà esprimere un fabbisogno compreso tra 3,1 e 3,6 milioni di occupati. Nel confronto internazionale, sul podio dei più soddisfatti troviamo i dipendenti della Repubblica Ceca (78%), della Romania (73%) e del Regno Unito (73%). Seguono quelli dell’Irlanda (72%), del Belgio (70%), dei Paesi Bassi (70%). Sotto il 70% dei soddisfatti troviamo l’Ungheria (69%), la Polonia (67%), la Spagna (66%) e la Francia (62%), mentre chiudono la classifica Italia (61%) e Portogallo (49%). La Repubblica Ceca si conferma capolista anche per quanto riguarda la soddisfazione salariale, con il 77% dei dipendenti contenti. I numeri scendono sensibilmente dopo la prima posizione, mettendo sul podio ancora una volta la Romania e la new entry Belgio, entrambe con il 69% dei dipendenti soddisfatti degli stipendi. Seguono Paesi Bassi (66%), Regno Unito (62%) Francia (60%) e Ungheria (60%), per poi trovare Irlanda e Italia con il 57% e la Spagna (53%). I più insoddisfatti della propria soddisfazione salariale sono ancora una volta i portoghesi (40%), questa volta insieme ai polacchi (48%).

«Secondo le stime di Unioncamere, la difficoltà di reperimento del personale è costata all’Italia nel 2023 quasi 44 miliardi di euro, per cui è fondamentale che le imprese investano per migliorare il livello di soddisfazione dei dipendenti per trattenerli – commenta Carlos Soave, Managing Director di Hays Italia –. Nel nostro Paese la soddisfazione cresce ma siamo ancora lontani dai livelli ottimali, per questo bisogna puntare sui bisogni intangibili dei dipendenti e non solo sullo stipendio. I benefit, il work life balance, l’ambiente di lavoro stimolante e le opportunità di crescita oggi sono aspetti essenziali per i lavoratori, e sempre più ne influenzano le scelte di carriera. Le aziende, soprattutto quelle di piccole dimensioni, devono pertanto avviare un radicato cambio culturale se vogliono migliorare la propria reputazione ed essere più attrattivi sul mercato».

Contrattazione di secondo livello ancora insufficiente

La contrattazione collettiva è cresciuta negli ultimi quattro anni, passando dal 75% all’87%, mentre è restata pressoché invariata quella di secondo livello, che nel 2022 è stata applicata solo dal 4% delle imprese. Sono alcuni dati che sono stati rlevati dall’Inapp-Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche. Grazie all’utilizzo dell’indagine Ril-Rilevazione Imprese e lavoro – (su un campione di circa 30mila imprese rappresentative del tessuto produttivo italiano) condotta periodicamente dall’Inapp – è possibile offrire una panoramica della diffusione della contrattazione collettiva di primo e secondo livello tra le imprese italiane. I dati delle ultime due rilevazioni (2018 e 2022), suggeriscono che la quota di imprese, con almeno un dipendente, che dichiara di aver aderito al Ccnl è passata dal 75% all’87% misurando quindi un aumento di circa 12 punti percentuali, un dato che nasconde tuttavia profonde eterogeneità rispetto al settore, alla dimensione e alla localizzazione geografica dell’impresa. Infatti se guardiamo alle imprese grandi, con più di 250 dipendenti, la quota di quelle che decidono di applicare la contrattazione collettiva è uguale al 98% mentre tra quelle con meno di dieci impiegati è pari al 84%, inoltre tra le imprese del Nord la quota di quelle che adottano la contrattazione collettiva nazionale è pari al 88% mentre tra quelle del Sud/isole scende all’86%.

Guardando poi alla contrattazione di secondo livello, la situazione è peggiore: la quota di imprese che dichiarano di applicarla si aggira intorno al 3,5% nel 2018 al 4% nel 2022. Tuttavia, se da un lato la percentuale è molto bassa, dall’altro, negli ultimi quattro anni, si è registrato un lieve incremento forse anche a seguito di politiche di promozione del decentramento della contrattazione collettiva, cioè politiche che incentivano la diffusione autonoma dello stesso secondo livello attraverso la leva economica.

Grandi dimensioni d’impresa e sindacalizzazione della forza lavoro sono determinanti positive della copertura della contrattazione collettiva sia di primo che di secondo livello. La probabilità di applicare un contratto di secondo livello aumenta tra il 10% e il 14% se in impresa vi è una rappresentanza sindacale. È pur tuttavia vero che oggi i sindacati riescono a coprire soprattutto i lavoratori strutturati delle grandi imprese (e anche questi non sempre con efficacia per quanto riguarda l’andamento dei salari reali). Inoltre c’è una "realtà parallela" che sfugge alla rappresentanza sindacale a causa della polverizzazione delle attività lavorative: basti ricordare i tanti atipici, a tempo, impegnati nei lavoretti (gig economy), che compongono di fatto quel grande filone di lavoratori poveri e che non hanno rappresentanza.





© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: