mercoledì 21 aprile 2021
L’Italia attende da oltre dieci anni il decreto attuativo. Mancano un quadro normativo coerente, nuove politiche fiscali e incentivi
In ltalia il mercato del riuso potrebbe crescere ancora

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Nonostante il mercato dell’usato valga già oggi – senza incentivi legati alla riduzione dei rifiuti e con i limiti normativi – 24 miliardi di euro l’anno (1,3% del Pil), occupi 80mila addetti e consenta di evitare 4,5 milioni di tonnellate di anidride carbonica (CO2), da oltre dieci anni si attende il decreto ministeriale per la preparazione al riutilizzo, previsto in attuazione della direttiva-quadro sui rifiuti dal decreto legislativo 205/2010. È quanto denuncia EconomiaCircolare.com, web magazine sulle sfide della transizione ecologica, promosso dal Cdca e da Erion Compliance Organization.

Se si considera che ogni cittadino europeo consuma in media 15 tonnellate di materie prime all’anno e produce circa 4,5 tonnellate di rifiuti, non è difficile comprendere l’importanza del riuso e del riciclo aumentata, tra l’altro, con il periodo di crisi pandemica che ha visto un significativo incremento di acquisti on line di oggetti usati quantificabile intorno a 10,5 miliardi di euro, dovuti a una maggiore incertezza per il futuro e una maggiore preoccupazione ambientale.

L’appello e la speranza è che il ministero per la Transizione ecologica, tramite il Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti, riduca gli ostacoli e liberi le potenzialità del settore incentivando la diffusione di buone pratiche a livello regionale e locale sia dal punto di vista del cittadino, sia delle imprese (dai centri del riuso alle aree di libero scambio dove i cittadini possano mettere in vendita i propri beni usati). Essenziali sarebbero alcune misure: dall’introduzione di norme coerenti a livello nazionale a politiche fiscali mirate, come l’abbattimento dell’Iva (pagata oggi due volte per i beni usati, al momento della vendita come nuovi e di nuovo quando sono rivenduti nei mercatini), dalla riduzione della tassa sui rifiuti a sgravi fiscali sul modello svedese per chi dimostra di aver fatto riparare un bene e ancora forme di incentivazione economica che riconoscano il valore ambientale del riuso.

Un anello importante di questa filiera sono i centri del riuso. Un censimento ancora in corso ne conta 85, di cui quasi la metà in Lombardia (26%) e in Emilia-Romagna (20,8%), mentre le altre regioni più rappresentate sono Marche, Veneto e Toscana. Nei centri del riuso sostenibilità ambientale e sociale viaggiano a braccetto. Nel 50% dei casi i centri sono nati per rispondere a una motivazione ambientale: ridurre i rifiuti promuovendo il riutilizzo in antitesi alla crescente diffusione, in moltissimi i settori, dell’usa e getta. Il 32% per un insieme di ragioni ambientali e sociali: l’impiego di persone svantaggiate o la cessione di beni a persone bisognose. Il 10% solo sociali e la restante per motivi economici in seguito a finanziamenti. Il legame tra finalità ambientali e sociali trova conferma anche nella natura del gestore dei centri, di solito affidata a cooperative sociali (32%), associazioni del territorio (30%), volontari (20%).

«Mentre la pandemia manda in sofferenza l’economia e le famiglie – dice Raffaele Lupoli, direttore di EconomiaCircolare.com – il riuso ha sicuramente le carte in regola per essere uno degli attori della ripartenza e della resilienza del Paese, col suo impatto in termini ambientali, economici e sociali. L’idea che ci siamo fatti approfondendo il tema è che c’è una parte di questo settore a forte vocazione sociale e solidale che deve avere la possibilità di mantenere queste caratteristiche, ma dall’altra parte c’è un potenziale ancora inespresso di creazione di valore e di occupazione, in piena coerenza con le indicazioni europee che ci impongono ormai di puntare prioritariamente l’attenzione sulla necessità di allungare il più possibile la vita dei prodotti, di poterli riparare e reimmettere sul mercato, riducendo la quantità di rifiuti in circolazione e il ricorso a discariche e inceneritori».


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