giovedì 5 ottobre 2017
Da Wall Street a Francoforte, gli indici azionari sono ai massimi storici. Merito, anche, dei miliardi di euro e dollari messi in circolo da Fed e Bce. Che ora devono evitare lo scoppio.
Il Toro di Wall Street, statua dell'italiano Arturo Di Modica piazzata nel 1989 davanti alla Borsa di New York (Sam Valadi via Flickr https://flic.kr/p/s2T93f)

Il Toro di Wall Street, statua dell'italiano Arturo Di Modica piazzata nel 1989 davanti alla Borsa di New York (Sam Valadi via Flickr https://flic.kr/p/s2T93f)

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Lo Standard & Poor’s 500, il Nasdaq e il Dow Jones, cioè i tre principali indici di Wall Street, sono tutti ai massimi storici. Il Dax40, l’indice della Borsa di Francoforte, pure. Il Ftse100 e il Cac40, indici di riferimento delle Borse di Londra e Parigi, hanno segnato il loro record a maggio e ora navigano appena sotto quei livelli. L’Hang Seng di Honk Kong si sta rapidamente riavvicinando al record raggiunto nel 2007. Il FtseMib di Milano è ancora sotto del 50% rispetto ai massimi toccati prima del crollo dei titoli tecnologici del 2000 e sfiorati di nuovo prima della Grande Recessione. Ma quello dell’indice della Borsa italiana, come quello del Nikkei giapponese (il cui record risale addirittua al 1989), è un caso atipico. La storia dei principali mercati azionari, di cui Wall Street è il re indiscusso, racconta di otto anni “da toro”: 105 mesi consecutivi di crescita raramente interrotta che hanno trascinato il S&P500 dai 797 punti del primo gennaio del 2009 agli attuali 2.532. Un +217% capace di fare brillare gli occhi ad ogni investitore.

Otto anni di toro

Dopo la batosta dei subprime, i mercati azionari hanno iniziato presto una risalita che è continuata – più o meno inspiegabilmente – anche quando la ripresa globale si è mostrata debole e vulnerabile. Non è questo il momento di meravigliarsi dei loro ultimi record: oggi l’economia mondiale, compresa quella della vecchia Europa, si sta facendo realmente robusta.


Alcuni indicatori oggettivi dicono che però le valutazioni delle azioni delle aziende quotate sono piuttosto alte rispetto al passato. Per esempio a Wall Street l’indice Shiller PE del S&P500, che mette in rapporto il valore dell’azione di un’azienda con gli utili che quella società ha messo assieme nell’ultimo decennio, in questo inizio ottobre è salito a 30,89. Siamo ai livelli più alti dall’agosto del 2001, cioè quando si andava esaurendo il delirio della bolla dei titoli Web. I valori delle aziende rispetto ai profitti che storicamente sono state in grado di generare sono molto alti e questo può significare due cose: o gli investitori credono stia iniziando una fase di grande espansione economica oppure rischiamo lo scoppio di una bolla azionaria che si sta gonfiando da più di otto anni.

Le cassandre e gli ottimisti

Alcuni nomi che a Wall Street contano – come Bill Gross, fondatore di Pimco, e Julian Robertson, 85enne che ha fatto la storia dei fondi hedge – negli ultimi mesi hanno detto di vedere un concreto rischio di bolla. Anche all’interno della Federal Reserve, con toni necessariamente molto più cauti, si inizia a parlare di «elevata valutazione» di alcuni asset. La vede alla stessa maniera la maggior parte dei responsabili finanziari delle aziende. Almeno secondo un recente sondaggio di Deloitte, secondo il quale più dell’80% dei manager considera «sopravvalutato» il mercato azionario americano. Se è vero, non si capisce perché continuino a comprare azioni. Forse perché, come ha spiegato Warren Buffett, secondo uomo più ricco del mondo e uno che alla bolla non crede per niente, in questa situazione le azioni sono comunque investimenti più allettanti di obbligazioni che rendono poco più di zero.


Il ruolo delle banche centrali

Senza citarlo, Buffett ha il merito di indicare implicitamente quello che gli inglesi chiamano “l’elefante nella stanza”: cioè il problema evidente che tutti fingono di non vedere. Quel problema sono gli effetti finanziari delle politiche monetarie delle grandi banche centrali, a partire da Federal Reserve e Bce. I tassi a zero e le migliaia di miliardi di euro e dollari messi in circolazione in questi anni con i piani di Quantitative easing hanno creato una situazione in cui tutto ciò che è a rischio zero o quasi non dà più nessun rendimento, o addirittura ha tassi negativi. Gli investitori in cerca di profitti si sono allora buttati sul mercato azionario, dove gli investimenti sono decisamente più redditizi ma anche più rischiosi. Sono i soldi stampati da Fed e Bce – più o meno 8mila miliardi di dollari – il più potente carburante di questi otto anni di marcia inarrestabile dei mercati azionari.

Prima o poi però quei soldi devono uscire dal sistema. La Fed inizierà questo mese la vendita di alcuni dei titoli acquistati riducendo il suo bilancio. La Bce è più indietro. Ma con la progressiva “normalizzazione” della situazione economica entrambe stanno accelerando il ritmo della loro exit strategy. La risalita dei tassi e il rientro degli stimoli porteranno a un mercato finanziario più equilibrato, dove anche i rendimenti delle obbligazioni torneranno più invitanti per chi ha soldi da investire. È un passaggio che le banche centrali sanno di dovere gestire con straordinaria cautela. Se davvero sono state loro a gonfiare la bolla, ora tocca a loro evitare che scoppi.


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