sabato 20 gennaio 2024
Roberto Vavassori (Anfia): «Con la situazione attuale decine di migliaia di persone perderebbero il lavoro, con una transizione ordinata invece l’impatto può essere gestito»
Riconvertire le aziende all'elettrico, l'auto prova a fare l'impresa

Ansa

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Le difficoltà di convertire all’elettrico un sistema che ha sempre e solo costruito con grande successo auto con motori termici. E la necessità di difendere l’occupazione di un settore che deve trasformare la minaccia cinese in un’opportunità di sviluppo. Sono questi i temi caldi per la filiera dell’automobile italiana che ha iniziato l’anno con numeri positivi ma che convive con prospettive preoccupanti, nonostante alcuni sondaggi dipingano la situazione in maniera più rosea di quanto in realtà sia. Lo sottolinea Roberto Vavassori, presidente di Anfia, l’associazione che rappresenta la filiera produttiva automotive italiana, di cui fanno parte le 2.167 imprese della componentistica che impiega circa 167.000 addetti e genera un fatturato di 55,9 miliardi di euro.

Presidente, secondo un sorprendente report dell’Osservatorio TEA del dicembre scorso, 8 aziende su 10 in Italia guardano con fiducia alla transizione elettrica. E addirittura per l'83% delle aziende, le trasformazioni avranno impatto nullo o positivo sull'occupazione. Come commenta questi dati?

Basta guardare cosa sta accadendo a Melfi e in altri distretti italiani per comprendere che in realtà c’è una grande preoccupazione, e già ora una sensibile diminuzione del lavoro. Quello che l’Osservatorio TEA trascura nel suo report è il fatto che la realizzazione di vetture elettriche è meno complessa e comporta la realizzazione di meno componenti, quindi alla aziende verrà sottratto del lavoro che verrà internalizzato dalle Case costruttrici per cercare di recuperare valore. Detto questo, la filiera dell’auto che rappresento non ha alcuna intenzione nè l’interesse di portare avanti battaglie ideologiche contro l’elettrificazione, anzi. Il futuro è inevitabilmente quello, ma occorre arrivarci seguendo criteri logici progressivi e di neutralità tecnologica.

Che prospettive vede Anfia per l’elettrico che non decolla ma diventa giocoforza l’ago della bilancia per chi lavora intorno all’auto?

Anche a livello europeo, la mobilità 100% a batteria ha avuto un ottimo sprint iniziale, anche favorito dagli incentivi, ma che ha soddisfatto curiosità e bisogni solo di una fetta di popolazione che vede l’elettrico come la seconda o la terza vettura di famiglia. Soddisfatta quella fascia di mercato, la domanda si è appiattita. E ora occorre una nuova spinta: a livello di bonus, ma anche iniziando a capire che non tutti i veicoli elettrici sono uguali a livello di consumi. E che su questi ultimi occorre ragionare. Senza dimenticare che purtroppo a oggi il 60% dell’energia che muove le auto elettriche in Italia proviene ancora da fonti fossili. Il vero tema dell’elettrificazione è dunque quello dell’energi a: quando e come cioè avremo elettricità “pulita” a prezzo adeguato per i consumatori a disposizione anche per la mobilità.

L’Osservatorio TEA stima addirittura un incremento degli occupati della filiera dello 0,6% al 2027. È una stima verosimile?

Dipende di quali orizzonti si parla. Se si passasse oggi esclusivamente all’elettrico, decine di migliaia di persone perderebbero certamente il lavoro. Se guardiamo invece a un orizzonte più lontano, anche per una questione demografica, una transizione ordinata e l’applicazione di una normativa Euro 7 revisionata potrebbero contenere l’impatto negativo attorno ai 10mila posti in meno al 2030-2032. Per fortuna, almeno il 60% dei componenti attuali di un auto rimarranno anche in futuro, mentre le aziende che producono parti relative ai motori e ai cambi dovranno riconvertirsi per forza. Alcune potranno farlo, altre no.

Questo comporta il problema di riconvertire anche le competenze del personale. Quasi la metà delle aziende denuncia infatti gravi difficoltà nella ricerca delle nuove professionalità. Che ne pensa?

Non dobbiamo farci troppe illusioni. La richiesta delle aziende è in continuo cambiamento e non possiamo chiedere l’impossibile al nostro sistema formativo. Occorre puntare su un’ottima istruzione di base del lavoro che in molti casi già abbiamo, e lavorare con flessibilità sui distretti. Ma occorrerà tempo.

Quanto esporta attualmente la filiera automotive italiana?

Nel primo semestre 2023, l’export è stato di 13 miliardi di euro di componenti a fronte di 10 miliardi di importazioni. Quindi è prevedibile un saldo positivo che a livello di anno pieno diventa di circa 6 miliardi di euro. Questo malgrado l’Italia esporti, nello stesso semestre, automobili per 12 miliardi di euro e ne spenda 18 per acquistarle all’estero.

Quindi è irraggiungibile l’obiettivo indicato dal governo di 1 milione di veicoli prodotti in Italia?

Il tavolo dell’Automotive convocato per l’1 febbraio su questo tema è un segnale molto positivo e incoraggiante nei confronti del settore della mobilità che in Italia dà lavoro complessivamente a 1,2 milioni di persone e garantisce oltre 75 miliardi di imposte allo stato. L’obiettivo di 1 milione di auto italiane è sfidante ma raggiungibile a determinate condizioni che vanno chiarite e per le quali occorre predisporre subito piani concreti. Considerando che abbiamo sul territorio un solo costruttore di volume, che è Stellantis.

L’espansione cinese è un problema o un’opportunità per la filiera?

È senz’altro un’opportunità per le aziende italiane già presenti in Cina che è il mercato più grande del mondo e quest’anno ha prodotto 30 milioni di veicoli, un terzo cioè del totale mondiale. Pensare di essere un componentista serio e con prospettive senza considerare il cliente più forte, è impossibile. Chi in Cina non c’è ha motivo di preoccuparsi: solo per fare due esempi, un costruttore forte come BYD ha fatto realizzare navi di enorme capacità per trasportare le sue vetture in Europa. E Geely ha addirittura acquistato un intero cantiere navale in prospettiva esportazione. L’invasione è inevitabile, ma per difendere le nostre aziende sarebbe utile che i dazi di importazione dalla Cina fossero almeno pari a quelli di esportazione verso quel Paese, cosa che chiediamo da tempo ma che oggi non avviene. Sarebbe prima di tutto una misura di corretta “igiene” commerciale.

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