giovedì 12 giugno 2025
Solo il 37% delle aziende fornisce strumenti per gestire la diversità. Politiche e formazione non sono ancora sufficienti o devono essere messe in campo
Le discriminazioni sono ancora presenti in azienda

Le discriminazioni sono ancora presenti in azienda - Tack Tmi Italy

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Quale persona è top manager? L’uomo di mezza età caucasico. Chi lavora in magazzino? Il ragazzo giovane caucasico o anche straniero. Chi si occupa della segreteria? La donna giovane. E di amministrazione? La signora più senior. Sono alcune delle risposte e dei risultati più frequenti ai test proiettivi, in cui è stato chiesto agli intervistati di associare immagini di persone con caratteristiche differenti ad alcuni ruoli.

I test, che hanno confermato la presenza - e persistenza - di stereotipi legati alla diversità (di età, genere, etnia) sul lavoro, sono stati condotti nell’ambito della ricerca Oltre le diversità: percezioni, esperienze e bisogni promossa da Tack Tmi Italy - branch italiana della società di Gi Group Holding specializzata in Training & Development - su un campione di 1.500 lavoratori occupati in Italia, con l’obiettivo di contribuire a un cambiamento reale e sostenibile nel modo in cui le imprese affrontano il tema dell’inclusione.

Dunque, i pregiudizi persistono e di conseguenza anche le discriminazioni sul lavoro, ma le azioni concrete per contrastarle, come politiche e formazione sulla diversità, non sono ancora sufficienti o devono essere messe in campo.

Dalla survey emerge infatti che nove lavoratori italiani su dieci segnalano la presenza, in ambito professionale, di episodi di discriminazione - su base etnica, di genere, orientamento sessuale, disabilità, età, aspetto fisico e altre caratteristiche personali, come il credo religioso - mentre il 28% dichiara di averli vissuti in prima persona.

Tuttavia, si evidenzia anche una forte percezione di mancanza di azioni concrete da parte delle aziende e scollamento tra le dichiarazioni d'intento e la realtà.

Il 64% degli intervistati della ricerca si riconosce, infatti, nell’affermazione “tante aziende parlano di programmi di diversità e inclusione, ma non fanno niente per i lavoratori come me” e solo il 37% sostiene che, nella propria azienda, vi siano strumenti per gestire le tensioni legate alle diversità.

Questo a fronte di una realtà in cui la soddisfazione sul posto di lavoro non dipende più soltanto da fattori quali la retribuzione, il Work-Life balance e la possibilità di sviluppo della propria carriera, ma anche dal sentirsi riconosciuti, accolti, rispettati nella propria unicità e da un allineamento rispetto ai valori aziendali (fondamentale per il 93% del campione).

«Quando i lavoratori considerano valori fondamentali l’integrità, la trasparenza, la collaborazione e il lavoro di squadra, inclusione ed equità non possono più essere viste come un extra, ma diventano una vera e propria necessità. Le aziende devono impegnarsi seriamente su questi temi, sia a livello culturale che gestionale - spiega Irene Vecchione, amministratore delegato di Tack TMI Italy (Gi Group Holding) -. Purtroppo, le discriminazioni esistono ancora, sia in modo evidente che più nascosto. Fattori come l’aspetto fisico, la somiglianza con chi ci è familiare o la vicinanza culturale influenzano ancora i rapporti sul lavoro. Questo succede anche per via dell’“effetto alone”, un meccanismo mentale che ci porta a giudicare una persona in modo positivo o negativo su tutto, partendo da un solo tratto (come l’aspetto o il modo di parlare). Per cambiare davvero le cose, è importante lavorare su questi automatismi e capire dove le politiche di Diversità, Equità e Inclusione possono essere migliorate. Serve formazione e coinvolgimento a tutti i livelli dell’azienda, per costruire una cultura più giusta, motivante e capace di attrarre e trattenere i talenti».

In base allo studio, l’etnia emerge come il fattore principale di pregiudizi (62%), seguita da orientamento sessuale (49%) e disabilità (48%). In particolare, la maggior parte del campione intervistato (57%) concorda che una persona disabile sia svantaggiata in azienda.

Tre lavoratori nati fuori dall’Italia su quattro hanno subìto discriminazioni. Sul tema dell’etnia emergono inoltre differenze a seconda dei territori e dei settori: ad esempio nel Nord Est e nel manifatturiero emergono con più forza gli stereotipi nei confronti dei lavoratori stranieri, visti come meno collaborativi o rispettosi delle regole aziendali.

Quando, infine, si chiede a chi ha subìto un episodio di discriminazione sulla propria pelle quali siano state le cause scatenanti, la fotografia è in parte differente.

La maggior parte dei casi sono, infatti, riconducibili al genere (14%), all’età (14%) e all’aspetto fisico (10%) e riportati soprattutto dalle donne e dagli under 35.

Se solo il 30% delle aziende con meno di 50 dipendenti mette a disposizione strumenti per gestire le eventuali difficoltà legate alle diversità - mentre la percentuale cresce al 41% tra le imprese di medie dimensioni (50-500 dipendenti) e raggiunge il 47% nelle grandi -, vi è però fiducia nella capacità generale delle organizzazioni di gestire potenziali conflitti.

Il 29% degli intervistati individua nelle dinamiche generazionali la principale criticità da affrontare, subito dopo la diversità di genere.

In questo contesto la formazione è certamente uno spazio da presidiare, considerando che solo il 21% delle persone ha dichiarato di avere preso parte ad iniziative di sensibilizzazione; l’empatia ossia la capacità di “mettersi nei panni degli altri, connettersi e comprenderli in modo profondo, anche senza aver necessariamente condiviso le stesse esperienze - è l’ambito su cui le persone ritengono utile ricevere maggior formazione, insieme alla capacità di riconoscere e gestire pregiudizi e stereotipi.

«C'è un legame forte tra quello che i lavoratori chiedono e le loro esperienze personali: spesso le richieste di attenzione o cambiamento nascono perché le persone sentono più fortemente le discriminazioni che toccano la loro identità o la loro storia personale – conclude Vecchione - Ma non basta solo sensibilizzare: bisogna cambiare davvero la cultura delle organizzazioni, per creare ambienti di lavoro più giusti, dove le persone stiano meglio e siano più coinvolte. La sfida è chiara: la diversità deve diventare una realtà concreta nei luoghi di lavoro, riconoscendone il valore umano e il potenziale di crescita e innovazione».

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