giovedì 26 settembre 2013
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«Si ricorda la Stet? Era un’azienda efficiente, presente in mercati-chiave, assolutamente strategica per il Paese. Ora di quel patrimonio resta poco o niente». Enzo Pontarollo, ordinario di Economia industriale alla Cattolica di Milano, non ce l’ha tanto con gli spagnoli di Telefonica («una scelta che era nelle cose») o con la gestione Bernabè («una persona perbene»). Quando parla di Telecom come di un’occasione persa, si capisce che ha in mente un’altra stagione. «Quanto sta accadendo in queste ore non è che la tappa finale di un percorso sciagurato» accusa.Colpa di una privatizzazione fatta a prezzi di saldo?La privatizzazione di Telecom è stata fatta male, ma i danni più gravi per l’azienda sono arrivati sotto la guida di Roberto Colaninno e Marco Tronchetti Provera. È in quegli anni che si scarica il debito sul gruppo telefonico, iniziando a vendere le partecipazioni all’estero. La verità è che alla fine nessuno ha pagato un prezzo per le proprie malefatte, salvo la società che ha visto diminuire velocemente il proprio valore. E adesso siamo alla frutta.Ha più responsabilità la classe politica o i cosiddetti capitani coraggiosi?Su Telecom si sono abbattute negli anni troppe pressioni da parte dei potenti di turno. Adesso che i nodi vengono al pettine, emerge ancor di più la spregiudicatezza degli imprenditori cui il Paese ha dato carta bianca. Questa vicenda è la prova di quanto sia stato miope il capitalismo italiano.Resta il nodo della rete, che tutti dicono di voler salvaguardare, a partire dal governo.Va certamente fatto lo scorporo, garantendo nello stesso tempo la salvaguardia dell’interesse pubblico e l’apertura al mercato. Il modello Terna/Enel utilizzato nel settore elettrico, ad esempio, va benissimo. Non possiamo peraltro dimenticare che i benefici di una maggior competitività nel comparto delle tlc devono riguardare alla fine proprio il consumatore finale.Venerdì e sabato in Cattolica discuterete del futuro dell’industria italiana. L’Europa ha confermato in un suo rapporto che la desertificazione avanza, non solo nel nostro Paese. Perché nessuno mette mano alla politica industriale? Il problema della deindustrializzazione è drammatico: se il manifatturiero scende sotto il 20% del Pil, rischia seriamente di sparire. Si sta velocemente riducendo la base produttiva, a tutto vantaggio dell’import di prodotti come quelli cinesi. Ma un Paese come il nostro non può ulteriormente indebolire un settore che è ancora molto robusto, a partire dai beni strumentali. Sbaglieremmo se pensassimo che la nostra economia può vivere solo di turismo e di moda. Il modello resta la Germania, che ha difeso con efficacia il proprio sistema produttivo.Il piano Destinazione Italia può funzionare?È un progetto interessante, non certo una rivoluzione. Bisogna che il governo crei un contesto accogliente per chi, da fuori, vuole investire. La condizione preliminare è che non succeda quanto successo con l’Ilva: lo sviluppo non si può affrontare per via giudiziaria, non spetta ai magistrati stabilire quali stabilimenti chiudere.Telecom e Alitalia, prossima ad essere ceduta ad Air France, sono il segnale che la svendita è iniziata?Il rischio c’è, è inutile negarlo. Fare l’industriale in Italia è sempre più difficile, ma chi pensava che la soluzione fosse delocalizzare si è già pentito e torna indietro. Nel caso di Telecom, Telefonica se la comprerà con poco, aggiungendo debito a debito. Nessuno si illuda che si possa trattare su strategie e posti di lavoro. Quando si viene comprati, il potere di negoziare non c’è più.
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