lunedì 31 maggio 2010
Le 12mila aziende del comparto temono di subire un drastico calo degli utili, a tutto vantaggio della concorrenza straniera. Le imbarcazioni non immatricolate in Europa, infatti, potranno continuare a pescare nel Mediterraneo con i vecchi metodi e persino vendere sui mercati europei senza essere tenute a pagare dazi.
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Niente più seppie, calamaretti e telline nelle tavole degli italiani che potranno dire addio anche a rossetti, bianchetti e latterini, frittura di paranza per eccellenza dalla Liguria alla Calabria. Tutto questo a partire da martedì 1 giugno con l’entrata in vigore del nuovo Regolamento Mediterraneo. Il ministro dell’agricoltura Galan ha già chiesto una deroga a Bruxelles. Si punta a “salvare” almeno la produzione di molluschi.A rischio non sono soltanto i piatti della tradizione mediterranea, ma anche la sopravvivenza stessa del settore. Molte e pesanti, infatti, le novità: reti dalle maglie più ampie, obbligo di pescare più lontano dalla costa, una diversa composizione delle attrezzature e dei calamenti, e poi taglie minime che, assicurano a Federpesca «non tengono conto della realtà biologica». La federazione degli armatori - capiamoci bene, 9mila imprese sulle 12mila associate si muovono su barche lunghe al massimo una decina di metri, spesso mosse dalla sola forza dei remi - ha protestato invano. Nel 2006 il regolamento è stato aggiornato all’unanimità, dando un deciso giro di vite, allo scopo dichiarato di salvare spigole e dentici dall’estinzione. Non che ci sia veramente questo rischio: a dispetto degli allarmi lanciati a più riprese - buon ultimo, quello del tonno rosso che avrebbe dovuto sparire in pochi mesi - gli stock ittici del “Mare nostrum” continuano a essere ragguardevoli. E a gonfiare le reti dei pescherecci del Medioriente e dell’Africa, per non dire di quelli giapponesi e coreani, i quali, non essendo immatricolati nell’Ue, non saranno tenuti a rispettarne le norme. Questa restrizione unilaterale cade come sale sulle ferite aperte dei nostri pescatori: «Viviamo già una congiuntura sfavorevole – spiega infatti Luigi Giannini, direttore di Federpesca –. Il costo del gasolio assorbe il trenta per cento del profitto, i consumi sono calati del dieci per cento, il mercato langue e impongono delle regole che taglieranno la produttività solo alle nostre imprese, mentre quelle extracomunitarie potranno continuare a operare indisturbate e a vendere il pescato sui mercati dell’Ue, in assenza di dazi». Federpesca è appena riuscita, nel mese di marzo, a fare muro contro il tentativo di bloccare la pesca del tonno rosso, ma questa volta la Guardia costiera non potrà esimersi dal fermare ogni peschereccio che imbarchi reti non regolamentari: le maglie dovranno passare, come detto, da 40 a 50 millimetri e, a giudicare dalle reazioni del settore, un centimetro in questo campo fa una gran bella differenza. Nei giorni scorsi, il ministero delle politiche agricole ha istituito un’unità di crisi. Le imprese della pesca annunciano di «un vero e proprio ciclone» e invoca «un piano di sostegno finanziario per imprese e lavoratori del naviglio operante con reti da traino, quello maggiormente colpito dalle nuove misure: un segmento che da solo rappresenta il 60% della flotta nazionale in termini di stazza e impiega direttamente circa 10mila addetti, per un volume di affari di circa 600 milioni di euro, pari a quasi il 40% dell’intero fatturato ittico». La soluzione sarebbe un fermo pesca straordinario di tre-quattro mesi a partire da giugno, che permetterebbe di erogare indennizzi altrettanto straordinari e «accompagnare» le nuove misure. Il costo dell’operazione: circa 30 milioni di euro. In discussione il futuro di novantamila lavoratori: 30mila operatori della pesca e 60mila dell’indotto.
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