giovedì 19 ottobre 2017
Incrociando i dati su aspettativa di vita e regole previdenziali l'Ocse confronta la situazione dei 50enni nati negli anni '40, '50 e '60: ogni generazione sta peggio di quella precedente
Pensionati d'estate a Vallecrosia, in provincia di Imperia (via Flickr https://flic.kr/p/DrSfhn)

Pensionati d'estate a Vallecrosia, in provincia di Imperia (via Flickr https://flic.kr/p/DrSfhn)

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Chissà se nella decisione di Pier Carlo Padoan di troncare senza appello il dibattito sul rinvio dell’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita ha pesato il lungo passato all’Ocse del ministro dell’Economia. Di sicuro lo studio diffuso il 18 ottobre dall’Organizzazione internazionale ha dato ragione in pieno al governo. «I lavoratori italiani più anziani sono più in salute di quelli di altri Paesi e le differenze nello stato di salute e nell’aspettativa di vita tra persone che hanno differenti livelli educativi sono relativamente piccole – scrivono gli studiosi dell’organizzazione parigina –. I lavoratori più anziani in generale, e quelli meno istruiti in particolare, hanno quindi un potenziale significativo per estendere le loro vite lavorative così da assicurarsi un reddito adeguato durante gli anni della pensione».

Il modello Global Fem

Parole supportate dai numeri di un modello che l’Ocse ha elaborato in collaborazione con lo Schaeffer Center dell’Università di California e il Centre for Economic and International Studies (Ceis), dell’Università di Tor Vergata. Il modello si chiama Global Fem, dove Fem sta per "Future Elderly Model", cioè “Modello della futura anzianità”, e si tratta di una simulazione che permette di fare previsioni sulla situazione economica e di salute di una generazione, per poi basare su queste stime politiche previdenziali o sanitarie.

L’Ocse applica questo modello a Italia, Stati Uniti e Belgio, studiando la situazione a 50 anni di età dei nati all’inizio degli anni ’40, a metà degli anni ’50 e alla fine degli anni ’60. Il risultato è che i cinquantenni nati negli anni ‘40 quando hanno raggiunto i 50 anni, cioè agli inizi degli anni ‘90, avevano davanti 5,8 anni di lavoro e 18,3 anni di pensione. Quelli nati una quindicina di anni dopo, che hanno raggiunto i 50 anni poco dopo l’inizio del millennio, si sono trovati a dovere lavorare quasi il doppio, cioè altri 10 anni, per poi stare in pensione per 13,8 anni, circa un quarto in meno della generazione precedente.

Andrà ancora peggio per i nati alla fine degli anni ’60, che i 50 anni li raggiungono in questo periodo: secondo le stime del Fem dovranno lavorare ancora 16,4 anni, cioè il triplo della classe degli anni ’40 e una volta e mezzo di quella degli anni ’50, accontentandosi poi di una pensione di 13,9 anni. L’Ocse non allarga le previsioni ai nati nel decennio successivo, per i quali si prospettano sicuramente ancora più anni di lavoro e, probabilmente, una vita da pensionati non molto più lunga.

Chi studia meno, sta meno in pensione

Lo studio analizza la situazione anche distinguendo tra i sessi e tra i livelli di istruzione. Quello che emerge è che dal punto di vista degli anni di lavoro il divario maggiore lo hanno vissuto le donne, con la generazione degli anni ’60 'costretta' a lavorare 6 anni in più di quella degli anni ’40, mentre la riduzione del periodo da pensionati è più forte per gli uomini, che hanno "perso" 5,9 anni in tre generazioni. Per quanto riguarda il livello di istruzione, chi ha meno formazione paga questo svantaggio in termini di meno anni di vita da pensionato: per i 50enni nati a fine anni ’60 gli anni di lavoro sono meno della media (9,2 contro 11) ma quelli di pensione sono 12,2 contro i 13,9. Gli italiani con il più alto livello di istruzione che arrivano a 50 anni in questo periodo invece lavorano in media altri 16,1 anni per poi passarne da pensionati 18,5.

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