domenica 22 ottobre 2023
Un’altra mossa incoerente del leader socialista, dopo le concessioni a Petrobras alla foce del Rio delle Amazzoni e le critiche all’Ue sul divieto di importazioni di merce legata al disboscamento
Foresta tagliata a Capixaba, in Brasile

Foresta tagliata a Capixaba, in Brasile - CC Lou Gold via Flickr

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La rivoluzione verde passa anche dal Brasile, ma in realtà sembra più greenwashing. Il Paese sudamericano ha una posizione di grande responsabilità nella tutela dell’ambiente, visto che nel suo territorio vivono oltre 200 milioni di persone, con tutto quello che comporta a livello di emissioni e consumo del suolo, e vi è custodito il 60% della foresta amazzonica.

Eppure a sorpresa il presidente Lula, rieletto per la terza volta con grande sollievo della comunità internazionale che non sopportava più Bolsonaro e dava per scontato un atteggiamento eco-friendly del leader socialista, ha dato più volte segnali di frenata sul green new deal: prima criticando l’accordo già ratificato unilateralmente dall’Unione europea sull’inasprimento del divieto di importare materie prime ottenute disboscando l’Amazzonia, poi lasciando che Petrobras continui ad estrarre petrolio alla foce del Rio delle Amazzoni, e infine chiudendo nello scorso agosto un accordo deludente con gli altri leader sudamericani contro la deforestazione del “polmone del pianeta”, che nel 2022 si è consumato al ritmo di 21 alberi abbattuti al secondo.

L’ultima mossa ambigua di Lula, che ha più volte rimproverato i “Paesi ricchi” di promettere dal 2009 aiuti per 100 miliardi di dollari l’anno per sostenere la transizione energetica dei Paesi più poveri, è il programma “Combustível do Futuro”, che secondo le stime innescherà 250 miliardi di reais (circa 50 miliardi di euro) di investimenti green in Brasile. Il piano prevede, tra le tante cose, l’aumento dal 12% al 15% della percentuale obbligatoria di biodiesel nel diesel entro il 2026, e l’innalzamento al 30% della quota di etanolo nella benzina.

Ma se le intenzioni sono virtuose, i dubbi sorgono tutti su come verrà prodotto questo carburante verde: attraverso i grassi di scarto provenienti dalla fiorente industria della carne (che già oggi per il 36% finiscono nella componente organica del diesel) e soprattutto gli oli vegetali, e quindi i tanto discussi oli di palma e di ricino, che in Italia sono vietati da un decreto legge del 2021 e di cui Eni ha sospeso l’utilizzo alla fine del 2022, limitandosi all’uso esclusivo di materie prime di scarto e di oli vegetali non in competizione con la filiera alimentare.

Se infatti recuperare i residui degli allevamenti bovini e suini, che pure contribuiscono drammaticamente alle emissioni climalteranti, è una soluzione valida per trarre almeno parzialmente vantaggio da un’industria che è tornata a correre, sostenuta dalla crescita del Pil sopra le attese (in Brasile il consumo di carne è considerato un rilevante indicatore socio-economico), diverso è il discorso per gli oli. L’olio di palma, così come la soia di cui il Brasile è primo esportatore al mondo e il cui olio incide attualmente per il 64% nella composizione del biodiesel, sono tra i maggiori responsabili della deforestazione, eppure nel Paese lusofono questa sembra essere una questione di lana caprina: l’industria degli oli vegetali sta già fiutando l’affare e, secondo quanto riportato dal quotidiano finanziario O Valor Economico, investirà 6 miliardi di reais nel 2024, cioè sei volte in più di quanto investito quest’anno.

Già è partita la corsa, anche da parte dei piccoli produttori, ad accaparrarsi un pezzo di terra da destinare a dendê e mamona, come vengono chiamati in Brasile olio di palma e ricino: “Saranno più redditizi del cacao, che si raccoglie una volta ogni sei mesi”, hanno dichiarato alcuni imprenditori agricoli intervistati dalla Folha de Sao Paulo, facendo intendere dove si andrà a parare. È dunque svolta ecosostenibile o nuovo business solo apparentemente più ecologico.

Restano i dubbi, ma il Brasile intanto un colpo lo sta mettendo a segno, e questa volta sul serio: l’università Usp di San Paolo, in collaborazione con Toyota, sta progettando la prima auto elettrica al mondo alimentata con idrogeno verde a base di etanolo, cioè fondamentalmente di canna da zucchero, che è la materia prima dalla quale si ricava l’etanolo. I primi test saranno a metà 2024: il veicolo sarà in grado di percorrere 600 km con una ricarica e dal tubo di scappamento verrà scaricato solo vapore acqueo.

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