mercoledì 22 novembre 2023
Gli algoritmi utilizzati dalle banche per concedere il credito penalizzano le famiglie con più figli. Tra i problemi il criterio del "reddito residuo minimo". Anfn in cerca di una soluzione
Per una famiglia numerosa ottenere un mutuo è quasi impossibile

Immagine generata da Dall-E

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Luca D’Amato e sua moglie Giorgia vivono da nove anni in un bilocale a Settimo Milanese (Milano). Un nido d’amore che è diventato sempre più stretto, man mano che i due si aprivano alla vita. Adesso Luca e Giorgia hanno cinque figli. Lei è mamma a tempo pieno, lui ha un discreto stipendio, derivante dalla sua occupazione di venditore d’auto. E poi, l’assegno unico, 1.100 euro al mese. Ora, con l’arrivo del sesto figlio, i letti a castello non basteranno più per ospitare tutti. «La nuova casa dei nostri sogni? Individuata da tempo». Ma ad ogni colloquio in banca, la risposta del funzionario è sempre la stessa, dettata dagli alert che appaiono nel sistema: il mutuo non sarà concesso.

Quella di Luca e Giorgia è una storia comune a molte famiglie numerose. Lo sa bene Alfredo Caltabiano, presidente di Anfn, l’associazione che raduna e dà voce alle famiglie extralarge in Italia: «Periodicamente ricevo email di famiglie associate che mi confidano il sogno di vivere in una casa dignitosa, dove tutti i componenti possano godere del loro “spazio vitale”. Famiglie che fanno mille sacrifici per onorare i loro impegni, che hanno sempre pagato regolarmente l’affitto o la rata del mutuo della casa in cui hanno abitato fino ad oggi. E che incontrano come un muro di gomma ogni volta che si recano negli uffici degli istituti bancari quando raccontano loro che nella nuova casa in cui intendono trasferirsi – e per la quale chiedono un mutuo – si stabiliranno in cinque, sei ed anche più persone». Caltabiano conosce bene gli algoritmi che determinano la scelta degli istituti. Lui stesso ha lavorato per 39 anni in una banca locale poi confluita in un grande gruppo nazionale. «E proprio perché li conosco, li contesto».



Caltabiano conosce bene gli algoritmi che determinano la scelta degli istituti. Lui stesso ha lavorato per 39 anni in una banca locale poi confluita in un grande gruppo nazionale. «E proprio perché li conosco, li contesto».

I criteri adottati dagli istituti di credito per concedere o non concedere un credito sono noti. Intanto il rapporto tra reddito e ammontare delle rate – non solo quella che il cliente dovrà sostenere per il mutuo, ma anche quelle che già sostenendo, ad esempio, per aver acquistato un’automobile, una moto, una bici, una lavatrice o uno smartphone – non dovrebbe superare una certa soglia, circa un terzo delle entrate. Ma nella decisione dell’ente erogatore incidono anche la stabilità del lavoro, l’affidabilità dimostrata nella restituzione dei debiti, l’assenza di negatività, il loan to value ovvero il rapporto tra l’importo del finanziamento e il valore del bene che il mutuatario intende ipotecare a garanzia del prestito: questo rapporto non dovrebbe spingersi oltre l’80% dell’importo minore fra costo e valutazione dell’immobile. Criteri confermati anche dall’Associazione bancaria italiana (Abi).

Ma anche quando una coppia con (diversi) figli supera tutti questi requisiti, il semaforo rosso arriva molto spesso da un’altra voce, che chiameremo, per semplificare, “quota di sussistenza”. Ovvero, detratte le rate di rimborso, il consumatore – nella stima prudenziale degli istituti di credito – dovrebbe comunque avere a disposizione un reddito residuo superiore al 50% del reddito sociale minimo mensile, avendo come riferimento la soglia di povertà stabilita da Istat e che varia da regione a regione e da città a paesi. È questa una indicazione che abbiamo trovato in una nostra indagine a campione, compiuta in istituti di credito di piccole, medie e grandi dimensioni. Avvenire è venuto in possesso, ad esempio, di una tabella utilizzata da un istituto di credito interregionale, che ha filiali tra Alto Adige, Trentino, Friuli e Veneto. E che parla di un «reddito residuo minimo» di 2.220 euro in caso di presenza di due figli, di 2.570 euro in caso di tre figli, di 2.870 euro per quattro figli, di 3.170 euro per cinque e di 3.470 euro di reddito da trattenere per tirar su sei figli.

«Cifre che fanno pensare – osserva Caltabiano –. E che spiegano meglio di mille altri esempi perché in Italia le coppie non sono incoraggiate a far figli. Oggi lo Stato riconosce alle famiglie, con l’assegno unico, una cifra massima di 187 euro per ogni figlio. Mentre nella scala di equivalenza utilizzata nel calcolo dell’Isee, lo strumento ad oggi più usato per la determinazione dei costi di compartecipazione delle famiglie a beni e servizi pubblici, il terzo figlio vale 0,39. Per anni abbiamo protestato per l’esiguità di quel “denominatore” ricevendo da tutti gli esecutivi incontrati la stessa risposta: le famiglie numerose sanno fare economie di scala». Quando, però, «una banca deve erogare un mutuo, le economie di scala… saltano d’incanto».

Il presidente di Anfn intende a mettere attorno a un tavolo ministero dell’Economia, Abi, la concessionaria per i servizi assicurativi pubblici Consap, la stessa Anfn e il Forum delle associazioni familiari, per riannodare i fili della questione e cercare di trovare una soluzione. Non sarà facile, perché gli istituti bancari, ormai da anni, sono molto prudenti nella concessione dei mutui in casi come questi, nel timore di dover rispondere in solido in caso di sovra-indebitamento (e fallimento) delle famiglie. Un ragionamento Caltabiano lo spende sulla natura degli istituti: «Sono realtà private, ma hanno anche una importante funzione sociale a cui, con queste scelte, stanno abdicando. Oggi appaiono molto attente, forse anche giustamente, ai temi “green”, ma chiudono la porta alle famiglie con figli. Dimenticando che quei figli aiutati oggi potrebbero essere ottimi clienti domani». E poi, sul ruolo dello Stato: «Se si ravvisano rischi, dovrebbe attivarsi per mitigarli con appositi strumenti».


L'avvertimento del family banker: «Signora, vada a fare lo stato di famiglia prima che nasca il bimbo. Perché per la banca un figlio in più è peggio di un debito».

Nel dicembre del 2013 il Parlamento introdusse, nella legge di Bilancio per l’anno successivo, un fondo di garanzia per l’attivazione di mutui finalizzati all’acquisto della prima casa di un valore massimo di 250mila euro. La gestione del fondo fu affidata a Consap. Destinatari: tutte le famiglie e, in via «prioritaria», le giovani coppie e quelle con almeno tre figli. L’adesione al fondo – secondo una convenzione tra Cassa depositi e prestiti ed Abi – è di tipo volontario: in effetti, solo una parte degli istituti di credito (ne abbiamo contati 275, tra cui molte banche locali ed istituti di credito cooperativo) ad oggi hanno aderito all’iniziativa, che ha comunque vincoli stringenti. «Con il decreto Crescita del 2019 – ricostruisce il presidente di Anfn - il fondo è stato rifinanziato ed anzi aumentato. Ma dalle categorie prioritarie (cui, per il vero, si attinge nel caso in cui il plafond sta per essere sforato) sono sparite le famiglie numerose».

Non va meglio a chi una casa già ce l’ha di proprietà e vorrebbe trovarne un’altra più grande. Carla Rossi (nome fittizio) nel 2020 aveva 37 anni. Abitava con il marito e tre figli a Duino, in provincia di Trieste «sul quale avevamo un mutuo acceso con un istituto bancario. Decidemmo di cambiar casa in un paese vicino, perché stavo aspettando il quarto figlio e quell’appartamento sarebbe stato piccolo». Carla era ricercatrice all’università e, due anni dopo, sarebbe diventata professore associato. Suo marito dipendente era dipendente a tempo indeterminato di un’azienda solida. In perfetta regola con la restituzione delle rate del mutuo (piuttosto alte), nessun altro prestito, nessun abbonamento o fonte di spese fisse». Eppure, dovette bussare alle porte di diverse banche, un po’ come la vedova persistente del Vangelo, prima di trovare una risposta affermativa alla sua richiesta di credito. Semaforo verde preceduto da una «accortezza» richiesta dal family banker: «Signora, vada a fare lo stato di famiglia prima che nasca il bimbo. Perché per la banca un figlio in più è peggio di un debito».


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