sabato 17 giugno 2023
I sindacati hanno proclamato 4 ore di sciopero a luglio. Lunedì l'incontro al ministero
Metalmeccanici: dall'acciaio all'auto 120mila posti in bilico
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All'ex Alcoa buona parte dei 400 dipendenti restano fuori produzione e vanno avanti con 500 euro al mese di sussidio. Alla JSW di Piombino (un ex altoforno che ora produce rotaie) ci sono 450 lavoratori in cig a zero ore e altri 900 a rotazione. Alla DEMA (aerospazio) 300 posti sono a rischio dopo la decisione dell'azienda di chiudere di chiudere due stabilimenti a Brindisi e ridimensionare gli altri due, in Campania. Alla GNH di Firenze i 370 dipendenti sono in cassa da due anni. Poi c’è il caso macroscopico dell’ex Ilva di Taranto dove la cassa integrazione straordinaria per 2.500 lavoratori è stata appena estesa al 31 dicembre e il futuro produttivo resta un enigma: dal Pnrr doveva arrivare un miliardo per la decarbonizzazione che invece sarà destinato ad altro. Ecco alcune delle crisi più gravi della metalmeccanica italiana. Ma su tutto il settore oggi pesano i rischi legati alla transizione ecologica e tecnologica: siderurgia, automotive, elettrodomestici, elettromeccanica e Tlc.

I segnali congiunturali non incoraggiano: ad aprile secondo l’Istat la produzione industriale italiana è calata del 7,2% su base annua, e dell'1,9% su marzo, segnando il quarto mese consecutivo di riduzioneAl ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) i tavoli aperti per crisi aziendali sono 57 e riguardano soprattutto la metalmeccanica con circa 50mila lavoratori coinvolti (il 70% del totale). Nel settore dell'auto se il passaggio storico la verso l'elettrico non sarà governato si annuncia un futuro ben poco elettrizzante, come stimano gli industriali di settore: 70mila posti di lavoro falciati, di cui 63.000 entro il 2030. Ma anche la siderurgia deve misurarsi con la sfida ambientale mentre ovunque automazione e digitalizzazione tagliano i posti di lavoro. Un panorama inquietante che ha indotto Fiom, Fim e Uilm (le federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil) ad annunciare nei giorni scorsi uno sciopero nazionale di 4 ore per sollecitare il governo a prendere di petto la questione industriale italiana. Il 7 luglio si fermeranno i lavoratori nel Centro-Nord e il 10 luglio quelli del Lazio e nel Sud Italia. Una «mobilitazione di merito, costruttiva, non contro», la definisce il leder della Fim Roberto Benaglia, perché «l'industria metalmeccanica soffre con crisi irrisolte da tempo, l'esclusione da investimenti internazionali e desertificazione nel Mezzogiorno» e serve un «cambio di passo». Uno «sciopero di avvertimento», afferma il segretario Fiom Michele Di Palma perché «noi non vogliamo accompagnare un processo di dismissione industriale ma affrontare la transizione e la situazione complessiva prima e non dopo che si chiudono i cancelli delle fabbriche». Se i settori ad alto contenuto tecnologico e ad alto valore aggiunto a non reggessero la sfida della transizione, per l’Italia sarebbero dolori. Già a marzo Fiom, Fim, Uilm insieme a Federmeccanica e agli industriali dell’Anfia chiedevano al governo di attivarsi contro il rischio di deindustrializzazione, a partire dal settore auto: battendosi per un fondo straordinario Ue e rafforzando lo stanziamento da 8 miliardi in 8 anni deciso dal governo Draghi per l'ammodernamento green e digitale del settore. Investimenti sui quali Francia, Germania e Spagna, sono più avanti. Ma l’appello finora non è stato ascoltato se ora le federazioni hanno deciso l’impegnativo passaggio dello sciopero, che per i lavoratori è un sacrificio in busta paga.

Domani pomeriggio i sindacati saranno ricevuti dal ministro Adolfo Urso al Mimit. Un tavolo su auto, siderurgia ed elettromestico. Ma la convocazione, fanno notare con qualche perplessità le tre sigle, è arrivata solo dopo la notizia dello sciopero. «Speriamo sia un’assunzione di responsabilità per recuperare il tempo perso», commenta Benaglia. Nel settore automobilistico, mentre a Termoli la gigafactory per batterie annunciata da Stellantis partirà forse dal 2026, a rischiare è soprattutto la galassia dell’indotto e della componentistica, dove una miriade di imprese potrebbe non reggere la gara perché specializzata su produzioni legate a diesel e benzina. Fiom, Fim e Uilm non spalleggiano il governo che bolla con il ministro Matteo Salvini una «follia» lo stop alle auto “termiche” dal 2035: sono convinte che la corsa sia ormai inarrestabile, con i grand big player mondiali che stanno facendo enormi investimenti sull’elettrico. «I tempi delle multinazionali non sono quelli della politica, quelle già si sparticosno i mercati mentre noi stiamo a bocce ferme», rimarca il leader della Uilm Rocco Palombella. Per i sindacati servono piuttosto «strategie industriali che impediscano delocalizzazioni, acquisizioni finalizzate solo a creare dividendi agli azionisti che producono desertificazione industriale, soprattutto al Sud». Mentre per il rilancio dell’industria «bisogna investire in formazione per affrontare i processi di innovazione tecnologica». Punto dolente l’attrattività degli investimenti esteri in Italia, che non dipende solo dal costo del lavoro. Come dimostrano gli investimenti miliardari in Francia sull’elettrico annunciati da un gruppo asiatico.

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