giovedì 16 maggio 2019
La strategia politico-economica di Orbán, di stampo nazionalista e anti-europeista, trova oggi difficoltà a far incontrare domanda e offerta di lavoro.
La dimensione multiculturale che manca all'Ungheria
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Lscorso dicembre il Parlamento ungherese ha approvato la controversa riforma della Legge sul lavoro. Migliaia di persone sono scese in piazza a Budapest per manifestare contro la cosiddetta "legge schiavitù", voluta dal governo di Viktor Orbán. La nuova norma innalza da 250 a 400 le ore annuali di straordinario che i datori di lavoro potranno richiedere ai propri dipendenti. Le aziende avranno la possibilità di retribuire quest’ulteriore lavoro straordinario dilazionando il pagamento fino a 36 mesi, triplicando quindi il lasso di tempo consentito in precedenza all’entrata in vigore della nuova norma.
Il primo ministro ungherese ha dichiarato che la riforma ha lo scopo di "rimuovere la burocrazia" per sostenere la crescita economica. La quale crescita, esaminando l’aumento del Pil dell’ultimo biennio (2,5% l’anno) e il dato sulla disoccupazione (3.7% ai minimi storici), è innegabile. Non è un caso che l’Ungheria sia attualmente uno dei Paesi dell’Europa centro-orientale in grado di attrarre il maggior numero di investimenti esteri. Da ultimo il costo del lavoro è tra i più bassi in Europa. Le aziende italiane non sono in generale indifferenti all’Ungheria: la "domanda di Italia" dalla sponda ungherese è sempre stata positiva, il nostro sistema industriale nel Paese vanta la presenza di oltre 2.600 aziende che impiegano più di 26.000 persone con fatturato/pil generato di oltre 4 miliardi di euro. L’attrattività magiara trova ulteriore e consistente motivo nei sostanziosi contributi erogati dall’Unione Europea.
Eppure la strategia politico-economica di Orbán, di stampo nazionalista e anti-europeista, trova oggi difficoltà a far incontrare domanda e offerta di lavoro. Perché la prima, con frequenza, supera il profilo quantitativo e qualitativo che la seconda è in grado di mettere a disposizione, nonostante i parametri di cui si è detto. La risposta iniziale ungherese all’andamento di queste due curve (domanda e offerta di lavoro) che, nonostante tutto, faticano a incontrarsi con regolarità, è stata quella di spingere – attraverso il canale normativo – su un eventuale eccesso di lavoro straordinario, allo scopo di "risolvere il problema" sul piano squisitamente quantitativo, facendo leva su un ultra utilizzo garantito dalla forza lavoro esistente, senza distinzione di profili, qualità o "livello di engagement" delle risorse. Altri Paesi in condizioni simili hanno adottato un approccio nettamente differente. Un esempio interessante è il Giappone, che ha aperto a uno sviluppo dei visti per lavoro nel 2019 per nuove 500.000 unità, con particolare riguardo a figure professionali di medio-basso profilo, per quanto concerne settori quali cantieristica ed edilizia, guardando agli investimenti propri delle aziende internazionali.
Quale la via e soprattutto quale la risposta scevra da un qualsivoglia posizionamento politico? La risposta aziendale ce la fornisce, con pochi dubbi a riguardo, la dimensione internazionale del lavoro. Se, da un lato, in Ungheria sono incentivati gli investimenti europei, anche attraverso una corporate tax al 9%, dall’altro le aziende estere, soprattutto quelle appartenenti ai settori delle costruzioni, dell’energia e delle utilities, incontrano non pochi ostacoli a inserirsi all’interno del mercato economico ungherese, per larga parte sotto il controllo diretto del governo, a causa di un’ostruzione più ideologica che di merito verso quella multiculturalità che è invece un chiaro fattore di discontinuità positiva per quelle aziende che hanno internazionalizzato il proprio business. Diventa quindi necessario fare un "match" tra il modello di internazionalizzazione presente in Ungheria e quel concetto di delocalizzazione oggi molto dibattuto e di grande attualità anche nel nostro Paese. La politica che trova declinazione su una norma come la "legge sulla schiavitù" genera, con grande probabilità, fenomeni di delocalizzazione, anche italiani. Se lo scopo diventa invece soddisfare le esigenze di un nuovo mercato, anche il mercato ungherese può trasformarsi in un terminale di internazionalizzazione. Ma per scegliere questa seconda strada è necessario aprirsi alla dimensione multiculturale del lavoro, non sfuggirvi, non sottrarsi a quella che è una strategia di sviluppo che le aziende più evolute hanno intrapreso da anni: esattamente il contrario della "legge schiavitù".
* Amministratore delegato Eca Italia

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