sabato 27 febbraio 2021
In Europa a gennaio ha segnato il balzo in avanti più forte da 10 anni. L'indice dei prezzi cresce anche negli Stati Uniti. E i fondi si riposizionano: meno azioni e più obbligazioni.
Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, partecipa a un audizione in Parlamento

Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, partecipa a un audizione in Parlamento - Reuters

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È da anni che le grandi banche centrali cercano di portare l’inflazione vicino al 2%, soglia esplicitamente indicata nel mandato della Bce e inseguita anche dalla Federal Reserve americana. Quel 2% è una soglia un po’ arbitraria che serve però a dare un’indicazione del livello di crescita prezzi considerato “sano” dalle autorità monetarie degli Stati Uniti e della zona euro.

Prima che scoppiasse la pandemia sia la Bce che la Fed erano riuscite a ottenere un’inflazione attorno al livello auspicato: tra il 2018 e l’inizio del 2020 l’indice dei prezzi si è mosso tra l’1,5 e il 2,7% negli Stati Uniti e tra l’1 e il 2,3% nella zona euro. Poi è arrivato il Covid-19, che tra i suoi effetti collaterali economici ha portato anche il crollo dei consumi e la conseguente discesa dei prezzi.

Negli ultimi mesi però qualcosa sta cambiando. A gennaio la zona euro è uscita all’improvviso da cinque mesi di deflazione: l’indice dei prezzi che era negativo da agosto è balzato dal -0,3 allo 0,9%, segnando il rialzo più forte da almeno dieci anni. Gli Stati Uniti hanno recuperato più rapidamente dell’Europa un livello di inflazione normale e le ultime previsioni indicano un’accelerazione per i prossimi mesi. Un ritorno dell’inflazione così brusco non era previsto e fa anche un po’ paura. Più agli investitori che ai consumatori, per il momento.

Da tempo i grandi investitori hanno spostato fondi dalle obbligazioni alle azioni: quando l’inflazione è bassa i titoli a reddito fisso (come le obbligazioni) danno rendimenti scarsi e chi cerca maggiori guadagni li può trovare nelle azioni, titoli più rischiosi ma (se va bene) anche più redditizi. L’accelerazione dell’inflazione sta provocando il movimento inverso. Gli investitori temono che l’aumento dei prezzi spinga la Fed ad anticipare il rialzo dei tassi di interesse e il rientro delle misure ultraespansive, due mosse che servirebbero a evitare il “surriscaldamento” dell’inflazione. Anche in Europa c’è chi pensa che in queste condizioni la Bce possa scegliere una politica un po’ meno generosa di quella adottata nell’ultimo anno.

Sono questi timori ad avere provocato il rialzo del rendimento dei titoli di Stato e la fuoriuscita di capitali dalle Borse. I rendimenti dei T-Bond americani a 10 anni giovedì hanno toccato l’1,6%, il massimo da un anno, i tassi dei Btp italiani questa settimana sono saliti dalll 0,62 allo 0,75%, quelli dei bund tedeschi dal 0,33 al -0,26%. Wall Street ha chiuso male le ultime due sedute della settimana. Le altre Borse, sia in Asia che in Europa, le sono andate dietro, chiudendo una delle peggiori settimane degli ultimi mesi.

Non è chiaro però quanto di questo rialzo dell’inflazione sia “vero”. Dietro agli ultimi aumenti dei prezzi potrebbero esserci diversi fattori momentanei, come gli intoppi lungo le catene produttive provocati dal Covid-19, alcune “fiammate” di acquisti giustificate con l’aumento delle speranze di un’uscita dal tunnel, anche l’adeguamento dei “panieri” dei beni su cui si calcola l’inflazione, corretti a gennaio per tenere conto delle abitudini di acquisto modificate dalla pandemia.

Un’inflazione stabilmente sopra al 2% non sembra compatibile con uno scenario di crisi economica e di crescente disoccupazione. Questo è quello che sperano anche le banche centrali, che non hanno nessuna intenzione di prendersi il rischio di dovere intervenire con misure monetarie che frenerebbero la crescita economica in un momento in cui sia l’Europa che gli Stati Uniti stanno cercando di ripartire dopo che il virus le ha messe ko.

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