domenica 31 gennaio 2010
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La crisi che taglia il posto a due milioni di italiani non sembra toccare il lavoro nero. «Negli ultimi due anni – conferma il direttore generale per l’attività ispettiva del Ministero del Lavoro, Paolo Pennesi – abbiamo avuto un’impennata delle irregolarità rispetto al recente passato e, soltanto nel 2009, i nostri ispettori hanno scoperto più di 50mila lavoratori in nero».Di fronte a una piaga radicata un po’ in tutte le regioni, con una maggior prevalenza al Sud, che, in termini di valore economico, rappresenta circa un quarto del Pil italiano, pari a qualcosa come 375 miliardi di euro, il Governo ha deciso di adottare una duplice strategia. Da un lato ha incrementato le sanzioni e l’attività ispettiva mettendo in campo più risorse, come i 550 nuovi ispettori destinati a presidiare le regioni meridionali dal piano antimafie approvato giovedì dal Consiglio dei ministri riunitosi a Reggio Calabria. Dall’altro, soprattutto con la legge Biagi, ha introdotto nella legislazione ulteriori istituti di flessibilità contrattuale.«L’intento – spiega Pennesi – è levare acqua al lavoro nero e togliere ogni alibi alle imprese, che così non hanno più scuse. Per chi insiste sulla via dell’irregolarità, le sanzioni sono adesso più severe. Per esempio, la misura che prevede la sospensione dell’attività quando il 20% del personale è in nero, ha dato buoni risultati in edilizia, dove è stata introdotta già da qualche anno e adesso sarà allargata anche agli altri comparti».Oltre alle costruzioni, i settori più a rischio quando si parla di lavoro nero sono l’agricoltura e il terziario commerciale e la collocazione geografica delle imprese irregolari è soprattutto al Sud. «Ciò non significa – precisa Pennesi – che il Nord sia immune, anzi. L’attività ispettiva evidenzia criticità importanti anche in distretti del Centro e del Nord».Un altro mito da sfatare è quello secondo cui il lavoro nero sia una prerogativa degli immigrati. Così non è e, dati alla mano, Pennesi divide equamente a metà l’universo degli irregolari, con un buon 50% costituito da lavoratori italiani.«Nel nostro Paese – riprende il capo dei circa 3.500 ispettori del Ministero, che con i 1.100 dell’Inps e quelli dell’Inail costituiscono il “sistema” di controllo delle imprese che operano in Italia – ci sono due tipi di lavoro nero. Ce n’è uno “di convenienza”, diffuso soprattutto al Nord, che vede imprese strutturate e regolarmente sul mercato utilizzare manodopera irregolare per risparmiare sui costi. Poi, c’è un nero “strutturale”, radicato soprattutto al Sud, fatto di lavorazioni molto povere che, se dovessero emergere, non starebbero più sul mercato. Parlo dei laboratori nei sottoscala, che, per ovvie ragioni, non è possibile regolarizzare».Anche qui dovrebbero arrivare gli ispettori del lavoro, che però, con le forze a disposizione, non riescono nemmeno a visitare tutte le imprese “normali”. I conti sono presto fatti: gli ispettori sono circa 5mila e le imprese con dipendenti, registrate all’Inps, più di due milioni. È una lotta impari e, quando va bene, gli ispettori riescono, in un anno, ad effettuare circa 300mila controlli.«Il fenomeno del lavoro nero – taglia corto Pennesi – non si può sconfiggere soltanto con i controlli e le sanzioni, perchè non è possibile militarizzare il mondo del lavoro. Bisogna, invece, educare chi dà lavoro a farlo nelle regole. E questo vale soprattutto al Sud perchè, dove manca il lavoro, il “prezzo” lo fa chi assume. In questi casi, purtroppo, per il lavoratore, che è la prima vittima del lavoro irregolare, anche sul versante della mancata prevenzione degli infortuni, il “nero” è una scelta obbligata. Non deve più essere così».
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