venerdì 4 novembre 2022
Su 300mila domande di "bonus psicologico", oltre il 60%, pari a 180mila, proviene da cittadini sotto i 35 anni. I cinque consigli utili per ridurre e prevenire i problemi
Lo stress da lavoro spesso può trasformarsi in malessere

Lo stress da lavoro spesso può trasformarsi in malessere - Archivio

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I dati diffusi dalla Commissione Europea per quel che concerne le richieste del “bonus psicologo” in Italia sono piuttosto preoccupanti. Su 300mila domande, oltre il 60%, pari a 180mila, proviene da cittadini sotto i 35 anni: il 43,55% riguarda giovani tra i 18 e i 35 anni, mentre il 16,62% è a favore di minori (0-18 anni). Pandemia, guerra, inflazione, caro-bollette sono tutti fattori che sicuramente incidono, ma anche lo stress lavorativo, il timore di perdere il lavoro in un periodo di incertezze, i cambiamenti subentrati nei luoghi e negli orari adibiti all’ambito lavorativo hanno avuto conseguenza, soprattutto sui più giovani, su quello che è il benessere psicologo. People at work 2022: a global workforce view, l’annuale ricerca redatta dall’Adp Research Institute, traccia quella che è una panoramica del sentiment lavorativo dei giovani italiani tra i 18 e 34 anni. L’indagine si è svolta su circa 33mila lavoratori in 17 Paesi, di cui circa 2mila in Italia. Innanzitutto, uno su cinque (il 21%) dichiara di non essere attualmente soddisfatto del proprio lavoro. Il primo motivo (44%) è dato dalla mancanza di possibilità di crescita professionale e quindi mancanza di prospettive, il 32% pensa di avere un ruolo poco impegnativo, poco motivante, mentre il 25% è scontento perché l’aumento delle responsabilità corrisponde raramente a un aumento in busta paga. Solo il 6% dichiara come la pandemia gli abbia fatto pensare di abbandonare il mondo del lavoro. Un particolare disagio lo subiscono i giovani genitori: il 47% pensa che essere genitore sia ancora un ostacolo alla carriera. Oggi non è solo lo stipendio a muovere il giovane lavoratore, non basta la promessa di una paga alta. Nell’accezione moderna di lavoro diventano fondamentali concetti come l’engagement, ovvero il lavoratore deve sentirsi partecipe di un progetto che abbia reali conseguenze sul mondo, la passione, la brand identity dell’azienda a cui si appartiene: si lavora per una motivazione ben precisa, cercando davvero di fare la differenza nella società. Il 41% ha infatti dichiarato che una delle cose più importanti nel lavoro è godere ed essere felici di quello che si fa. Il 56% ha poi dichiarato di non essere disposto a rinunciare alla flessibilità di orari e luoghi, pena lasciare il lavoro attuale per un altro più flessibile. Il 18% dei lavoratori della fascia 18-34 afferma inoltre di sentirsi giornalmente sotto pressione. Si sente stressato più volte a settimana il 34% degli intervistati, mentre l’11% solo due o tre volte al mese. Causa principale di questa pressione, per un lavoratore su quattro, è l’aumento delle responsabilità subentrato con la pandemia (ma appunto non seguito da un aumento di stipendio o da un salto di carriera), le spesso infinite ore di lavoro giornaliero (22%) ma anche la paura di perdere il lavoro: il 21% non si sente sicuro, è preoccupato. L’insieme di questi fattori crea del disagio psicologico nel lavoratore, disagio che può essere incentivato anche da dinamiche private, come problemi famigliari o economici, tanto che il 65% degli intervistati ha dichiarato di essere conscio di come il proprio lavoro risenta negativamente dei propri problemi psicologici e umore. Il 22% ha inoltre dichiarato come la propria azienda non stia facendo nulla in proposito, non dimostrando interesse nell’incentivare azioni per aiutare i lavoratori psicologicamente più fragili.

I cinque consigli per ridurre i rischi

Nel 2019, l’Oms-Organizzazione mondiale della sanità ha riconosciuto ufficialmente il burnout come un “fenomeno occupazionale” e oggi compare nell’International Classification of Disease, la classificazione internazionale delle malattie e dei problemi a loro correlati. Negli ultimi anni, complici la pandemia, il lockdown e la difficile situazione economica, si è registrato un numero sempre crescente di casi di burnout sul lavoro, soprattutto tra i giovani. L’edizione del 2022 dello Stada Health Report, a proposito, evidenzia come quest’anno rispetto al 2021 i livelli di burnout siano passati dal 49% al 59%, soprattutto in riferimento alla fascia d’età tra i 18 e i 34 anni e alle lavoratrici di sesso femminile (il 70% di entrambe le categorie ha dichiarato infatti di aver vissuto almeno un episodio di burnout). Ecco i cinque consigli elaborati da Alessandro Raguseo, ceo e fondatore di Reverse, azienda internazionale di Hr e Head Hunting:

1. Mettere al centro il benessere del dipendente. Alcune aziende scelgono di creare la figura del Chief Happiness Officer, in breve CHO: è una buona scelta per accompagnare l’affermarsi della giusta cultura, ma può rivelarsi controproducente se rimane solo di facciata. Ovviamente l’ideale sarebbe non sentirne il bisogno e dare per assodato che la felicità dei dipendenti sia già una priorità di tutti i manager.

2. Impostare una cultura aziendale per obiettivi e non per ore lavorate. Questo si traduce nel lasciare che i dipendenti si autogestiscano, coordinandosi ovviamente con il team, per quanto riguarda gli orari di lavoro, dando più peso agli obiettivi da raggiungere, che devono essere quindi ben definiti e condivisi. Inoltre, una sana cultura aziendale per obiettivi si appoggia inevitabilmente a una maggiore cultura della fiducia da parte del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, che riduce senza dubbio il rischio di stress patologico causato dal lavoro.

3. Prestare attenzione all’home working, che spesso non si traduce in smart working. Non è assolutamente scontato infatti che il lavoro da remoto si traduca automaticamente in un maggiore benessere dell’individuo. Lavorare da casa tutti i giorni può portare con sé situazioni ed elementi che vanno assolutamente evitati come l’alienazione, l’isolamento, poco dialogo tra i colleghi, disorganizzazione, eccessivo controllo e orari di lavoro dilatati. Impostare una già citata cultura aziendale per obiettivi aiuta sicuramente a contrastare anche i rischi causati da un eccessivo home working.

4. Vigilare e prevenire molestie psicologiche e/o fisiche e casi di mobbing. Sembra una banalità, ma non lo è. Comportamenti di questo tipo sono purtroppo molto comuni ed è importante che il dipendente si senta al sicuro e tutelato all’interno dell’organizzazione per cui lavora. Per questo è importante definire un piano strategico di prevenzione di questi fenomeni, creare dei momenti di ascolto facilitando le segnalazioni di eventuali episodi e attivare le dovute sanzioni quando necessarie.

5. Attivare un piano benefit che preveda iniziative di sostegno al work-life balance come servizi per la famiglia, assistenza sanitaria, convenzioni per gli acquisti, ma anche momenti dedicati al benessere del dipendente in azienda come formazione, corsi di mindfulness e team building tra colleghi.

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