mercoledì 20 ottobre 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
In Italia si stima che circa 5 milioni di persone vivano in condizioni di svantaggio sociale. Nel 90% dei casi sono stabilmente disoccupate. Una metà di esse è riconosciuta, anche dalle statistiche, come appartenente alla condizione di svantaggio in quanto presenta patologie o situazioni specifiche (disabili fisici e psichici, tossicodipendenti, etilisti, ex-detenuti). Ma l’altra metà, non essendo per così dire identificabile, vive la propria condizione in modo quasi nascosto, invisibile: al riguardo si parla di area di disagio sociale sommerso, la più difficile su cui intervenire.Una situazione drammatica, dunque, e non solo dal punto di vista sociale. Si calcola, infatti, che per il sistema socio-economico ne derivi un costo annuo complessivo di 25 miliardi di euro, come a dire una manovra finanziaria bella robusta. Eppure è difficile trovare riferimenti a questo tema sui media o nell’agenda delle priorità politiche.Per agire su questa situazione la via maestra è il lavoro. Inserire queste persone nel contesto di un’attività produttiva è il primo passo per tentarne la reintegrazione. Ma se per lo svantaggio sociale riconosciuto esistono degli strumenti d’azione (normativa sul "collocamento mirato", commesse pubbliche affidate a cooperative sociali in cui lavorano persone svantaggiate), per il sommerso no.Una proposta innovativa che mira a incidere sul fenomeno dello svantaggio sociale sommerso arriva ora dall'Istituto Canonico Cuniberti di Ivrea. Un ente che da oltre centocinquant’anni si adopera a favore dei meno fortunati. Puntando, per il loro recupero, proprio sull’inserimento lavorativo. L’idea è quella di dar vita ad un’Agenzia per l’apprendistato sociale, che agisca come cabina di regìa di una vasta azione di inserimento e accompagnamento lavorativo delle persone svantaggiate, non solo quelle che rientrano in categorie riconosciute ma anche, anzi soprattutto, quelle del sommerso. E lo faccia in collaborazione con centri per l’impiego, servizi socio-assistenziali, enti di formazione e, ovviamente, con gli operatori economici disponibili a stipulare contratti di apprendistato sociale.I punti qualificanti del progetto sono principalmente due. Il primo è che l’inserimento al lavoro deve essere guidato da una figura terza rispetto al soggetto svantaggiato e all’azienda che lo assume, precisamente un volontario, denominato Maestro di lavoro. Che rappresenti un riferimento per la persona e una garanzia per l’azienda. Allo scopo è prevista la creazione di un apposito Albo dei Maestri di lavoro, che abbiano un’adeguata esperienza lavorativa e siano disposti appunto a impegnarsi a titolo gratuito.Il secondo elemento fondante del progetto, il più innovativo, consiste nel superamento della logica prevalentemente assistenziale con cui di solito i soggetti svantaggiati sono inseriti al lavoro attraverso gli strumenti d’azione oggi esistenti. Che, invece di favorire la loro crescita, finiscono quasi sempre per perpetuarne la condizione di svantaggio perché garantiscono retribuzioni indipendenti dai risultati prodotti. Il progetto vuole invece far sì, proponendo sul piano della normativa sul lavoro le modifiche necessarie per dare adeguata legittimazione alla sperimentazione, che sia possibile commisurare la retribuzione del lavoratore svantaggiato al valore della sua prestazione, di solito del 30-40% inferiore ai livelli di prestazione standard. In tale contesto, l’intervento pubblico sarebbe mirato a premiare l’impegno della persona, con l’erogazione di un’indennità integrativa quando il salario maturato è inferiore ai minimi contrattuali.I costi minimi delle retribuzioni collegati a valori standard delle prestazioni, infatti, se hanno ovviamente senso per tutelare i lavoratori non svantaggiati, generano uno squilibrio per quelli svantaggiati e non permettono che si crei una vera domanda di mercato per le loro prestazioni: una giusta retribuzione avrebbe invece un alto valore formativo per il lavoratore svantaggiato, perché sarebbe sinonimo di contesto lavorativo reale, non assistito o protetto, e ne stimolerebbe l’acquisizione di ulteriori abilità sociali (il "saper lavorare" relazionandosi con gli altri sul posto di lavoro) e professionali. Creando le condizioni per un’occupabilità effettiva.In partenza in queste settimane, il progetto prevede un periodo di tre anni per essere sviluppato con metodologie rigorose. Se i risultati, com’è auspicabile, saranno positivi, si sarà allora aperta una strada e avviato un cambiamento culturale nel modo di affrontare il disagio sociale di tanti "invisibili" ora lasciati soli.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: