sabato 7 maggio 2016
Dagli scenari globali al fronte italiano, colloquio con il numero uno dell’Eni: "Dobbiamo rivoluzionare il paradigma di sviluppo fin qui dominante e scegliere senza ambiguità un modello "low carbon".
Descalzi «Il futuro è in Africa»
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Mettiamola così: l’umanità sta esaurendo il suo conto in banca, la banca del respiro. «Nel 2011 il nostro budget di CO2, quella che potevamo immettere ancora nell’atmosfera, era di 1.000 Gton (giga tonnellate, un miliardo di tonnellate, ndr). Senza cambiare le regole del gioco, intervenire cioè sulla principale fonte di emissione che è la produzione di energia da carbone, non arriveremo al prossimo secolo». Il cielo, allora, sarà già saturo.
Traguardando l’orizzonte dall’ufficio di Claudio Descalzi, numero uno dell’Eni, sembrano solo pensieri di un futuro remoto. L’aria è tersa oltre i vetri e, fino al dodicesimo piano, fischietti e vociare di una manifestazione in corso dietro i vialetti di Metanopoli faticano ad arrampicarsi. Fisico di formazione, Descalzi snocciola con passione schietta i dati sulla lotta al "climate change". È un suo pallino, e forse qualcosa di più. Avrà a che fare con la responsabilità indotta dal secondo e meno famoso paradosso di Schrödinger, visto che la maggioranza delle emissioni, circa il 70%, sono legate ai consumi energetici: gli esseri viventi pompano organizzazione nel sistema, ma la compensano con il disordine che seminano passando. Così la vita prospera generando entropia ovvero inquinamento.
L’umanità, insomma, deve trovare un rimedio. Presto. A partire di signori dell’energia. «Stiamo attraversando un cambiamento epocale che ci dovrebbe portare verso un futuro low carbon». O saremo soffocati dal disordine che abbiamo seminato. Da amministratore delegato Descalzi ha iniziato subito a lavorare con l’Unione europea e pure con le compagine "rivali" per tracciare un sentiero che contrasti il surriscaldamento globale. "Ambiente", nei primi minuti dell’incontro mattutino, è già la parola più pronunciata. Per questo si definisce «molto amareggiato» – probabilmente un eufemismo – per quanto accaduto in Basilicata. «In val D’Agri – dice – al di là delle condotte di alcuni singoli che dovranno essere verificate nel merito, l’impianto rispetta le best practice internazionali e abbiamo tutti i certificati e le autorizzazioni, altrimenti non avremmo investito miliardi; abbiamo operato con correttezza, fatto ricorso contro la chiusura dell’impianto di Viggiano e chiederemo ora un incidente probatorio, ossia di poter verificare in contraddittorio i complessi aspetti tecnici dell’impianto o comunque di rivedere la misura del sequestro. Ribadiamo la massima collaborazione alla magistratura, vogliamo andare fino in fondo e che sia fatta chiarezza. Vorrei sottolineare che gli esiti delle perizie indipendenti che abbiamo promosso non solo ribadiscono la correttezza dell’impianto, ma anche l’assenza di un rischio sanitario e ambientale».
Del resto, appena messo piede nella stanza dei bottoni dopo trent’anni vissuti prevalentemente in Africa per il Gruppo che oggi guida, ha presentato nel luglio di due anni fa un piano per rendere Eni forte anche a prezzi del petrolio bassi. Una sterzata decisa per valorizzare due vocazioni dell’eredità Mattei: Africa e tecnologia. E risolvere anzitutto il dilemma tra equilibrio finanziario a breve termine e crescita a lungo. Contribuendo poi a limitare, riconoscendone esplicitamente la necessità, l’incremento della temperatura entro i 2 gradi centigradi. Come? «Abbiamo ridotto la cosiddetta "impronta carbonica" attraverso il taglio delle emissioni dirette, la conversione green del downstream e la ricerca nelle rinnovabili – sostiene –. E potenziando il ruolo del gas nei Paesi in via di sviluppo». È tutto nero su bianco nelle linee strategiche 2014- 2018. Dentro ci sono precise scelte geo-politiche – il ruolo dell’Africa a cui l’energia viene venduta e non solo estratta – e industriali: puntare su progetti convenzionali, soprattutto gas, rinunciando agli idrocarburi artici, allo shale e alle sabbie bituminose. «La Cop 21 di Parigi è stato un successo, perché ha visto per la prima volta l’impegno di 195 Paesi al mondo. Ma in assenza di obiettivi unici e regole comuni, non riuscirà a impattare significativamente sulla riduzione delle emissioni». Dagli scenari globali al fronte italiano, il colloquio ruota sempre intorno a un tema: «Non possiamo più aspettare: in un sistema energetico in crescita, abbiamo bisogno di fonti competitive e accessibili a tutti per favorire lo sviluppo preservando al contempo l’ambiente». Proprio il tema ambientale è il vulnus del caso Basilicata.
 
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