sabato 10 febbraio 2024
L'etichetta ha sborsato 600 milioni di dollari per il rimanente 50% dell'artista, consolidando la tendenza nell'industria musicale che vede i grandi nomi e i loro eredi cedere interi cataloghi
Michael Jackson

Michael Jackson - Ansa

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Se già non vi è capitato, presto potrebbe essere più facile ascoltare una canzone di Michael Jackson all’interno di uno spot pubblicitario o come colonna sonora di un film. La musica è (anche) un’industria, materiale artistico da convertire in un modo o nell’altro in denaro. E di spot, o di altri modi di monetizzare un investimento monstre, potrebbero volercene molti per la Sony, l’etichetta che, riportano i media americani, ha deciso di sganciare 600 milioni di dollari per il 50% del catalogo di Michael Jackson. Beninteso: l’altro 50% era già di proprietà della stessa Sony, che diventa così unica proprietaria dell’intero pacchetto Jackson, valutato dunque in totale in 1,2 miliardi di dollari. La transazione è quella di maggior valore della storia per il lavoro di un singolo musicista e si inserisce in una dinamica ormai consolidata nell’industria musicale, che vede appunto gli artisti cedere il loro catalogo e quindi i diritti di sfruttamento delle proprie opere, compresi naturalmente gli introiti dello streaming, in cambio di somme da capogiro.

Nel 2020 Bob Dylan si è accordata con la Universal Music Group, gigante della discografia mondiale controllato da Vivendi e partecipato dai cinesi della piattaforma di streaming Tencent, per cedere i diritti di oltre 600 canzoni frutto di 60 anni di carriera per la somma di 300 milioni di dollari. Warner Music si è invece aggiudicata nel 2021 il catalogo di David Bowie dai suoi eredi per 250 milioni di dollari e la stessa Sony quello di Bruce Springsteen per oltre 550 milioni. Ma sono solo alcuni di tanti esempi simili, anche se non mancano le eccezioni di artisti contrari alla cessione delle loro opere, da Taylor Swift ai Metallica.

Dopo la fase complicata dei primi anni 2000, in cui il boom del Web e del download illegale cominciò a far crollare la redditività del supporto fisico, l’industria musicale oggi si affida soprattutto agli eventi live (ma negli anni del Covid gli artisti hanno dovuto rinunciare a quelle entrate), allo streaming e allo sfruttamento dei diritti dati dalla pubblicità o da altre forme di collaborazione. Le royalties pagate dai servizi di streaming sono diverse da Paese a Paese, dal tipo di abbonamento e anche dal numero totale di stream dell’artista. In media, si stima ad esempio che Spotify paghi tra 0,003 e 0,005 dollari per stream, il che significa che un artista può aspettarsi di guadagnare tra i 300 e i 500 dollari per ogni 100.000 stream.

Ai musicisti servono, dunque, numeri enormi per portare a casa introiti interessanti. Le grandi etichette musicali, da parte loro, possono avere a disposizione grandi quantità di denaro, il fattore tempo che molti artisti non hanno e una qualità di dati sempre maggiore che consente loro di predire con maggiore precisione i futuri guadagni derivanti dal catalogo di un musicista. Non solo: essere proprietaria di un catalogo permette a una società di produzione musicale di poter pubblicare anche nuove edizioni dei dischi dell’artista e nuove raccolte, magari cofanetti da vendere a prezzi maggiorati, e a perpetuare così l’interesse per un artista. I più avvantaggiati da questa tendenza sono naturalmente i grandi nomi, per i quali si scatena una vera e propria asta, anche grazie al fatto che le etichette prevedono, in questi casi, ricavi costanti nel tempo in grado di ammortizzare l’investimento. Per gli artisti più più giovani, e dagli introiti meno sicuri, rischia di restare quasi nulla.

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