sabato 28 novembre 2020
Apre a Torino un centro commerciale che vende solo prodotti sostenibili. Farinetti: «Ottimismo e galline contro la dittatura dell’online»
L'edificio di Green Pea a Torino

L'edificio di Green Pea a Torino - foto Oggero

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Tanto inglese, pure troppo per chi ha fatto dell’italianità la sua bandiera. Ma lo slogan di Green Pea – Pisello Verde evidentemente non suonava bene – è intrigante: from duty to beauty. Come dire: essere etici è un dovere, ma sappiate che trattare meglio il pianeta è una scelta favolosa. Apre l’8 dicembre a Torino il supermarket della sostenibilità, l’ultima pensata di Oscar Farinetti: quattro piani di leggerezza che vendono esclusivamente prodotti costruiti nel rispetto della natura, e che alla fine del proprio ciclo di funzionalità, possano essere facilmente riciclati. L’ipermercato dedicato al tema del rispetto ecologico venderà i beni più importanti delle attività di consumo: l'energia, il movimento, l’abbigliamento, la casa e il tempo libero.

Costruito secondo rigorosi principi ispirati alla sostenibilità dagli architetti Catino e Grometto a pochi metri dal Lingotto e di fianco a Eataly, costato 50 milioni di euro e circondato da un bosco di cento piante, l’edificio del Green Pea è completamene rivestito dal legno ricavato dagli alberi delle foreste di Belluno abbattuti dal ciclone del 2018. Nei suoi 15 mila metri quadrati si respirerà solo aria green, perché il primo obiettivo della retorica farinettiana è «fare in modo che le persone si adoperino per ridurre e differenziare i rifiuti di ogni genere e che utilizzino fonti energetiche rinnovabili. Non solo per sentirsi migliori ma anche per essere più sani, piacevoli e stimati". Tre piani saranno riservati alla vendita, uno al benessere e all'ozio. In tutto saranno 72 i luoghi dove «il rispetto diventa piacere», con 66 negozi, un museo, 3 luoghi di ristorazione, una piscina e una spa.

Una specie di Greta-market insomma, inventato dall’uomo che a 66 anni continua ad essere uno dei più geniali e discussi commercianti del mondo. Dalla catena UniEuro, fatta crescere e poi ceduta nel 2002 al gruppo britannico Dixons per 528 milioni di euro, al colosso Eataly, la fiera chic del cibo tricolore che oggi ha 42 negozi in 15 nazioni, dagli Stati Uniti alla Corea del Sud. Ogni giorno vende 800.000 prodotti italiani e mette a tavola 350.000 persone. Vendeva e metteva, in realtà. Perché la pandemia stronca anche le fabbriche migliori, ma Oscar Farinetti è un abile calcolatore anche in questo: lui le idee le costruisce e poi le vende, come ha fatto per una larga percentuale di Eataly. Con Fico a Bologna ha fatto un mezzo buco nell’acqua, ora ci riprova puntando sul Pisello torinese, affidandolo formalmente al figlio Francesco che ne è l’amministratore delegato, sfidando il lockdown e il clima depresso. «Per restare bravi e non chiudere i negozi bisogna inventarsi un’identità. E spingere i clienti a comprare la nostra storia», spiega. E racconta come farà, partendo – appunto – dall’energia. Al primo piano del suo nuovo parco-giochi della sostenibilità c’è una grande concessionaria Fca che vende solo auto e scooter elettrici o a biometano. Iren, altro partner di Green Pea, offre energia eolica e solare per chi vuole passare, nel consumo domestico, alle sole fonti rinnovabili. Poi c’è Tim, che qui vende telefoni, ma solo ricondizionati. Infine una grande lavanderia per chi vuole lavare gli indumenti al netto della chimica. Al secondo piano i mobili e i complementi d’arredo. Venticinque firme del design italiano ma, spiega Farinetti, «con un rigido disciplinare: se è legno, che provenga solo da foreste deforestabili, se è acciaio o vetro, che siano riciclati. Può esserci anche il compensato, ma con zero formaldeide».

Il terzo e il quarto livello sono dedicati all’abbigliamento, solo italiano pure questo e in cotone bio e OGM free, solo con lana di animali allevati in modo etico (con allegata foto di pastore e del pascolo), solo plastiche riciclate e tessuti colorati con erbe, fiori e prodotti naturali. Il quarto livello è per le grandi firme (Zegna, Cuccinelli, Loro Piana e altri) ma sempre all’insegna dei tessuti sostenibili. C’è anche un grande spazio dedicato alla pulizia della persona e della casa: shampoo, dentifrici, bagni schiuma, detersivi, ovviamente tutti bio. Completano il tutto due ristoranti e un’immensa libreria diffusa, e tanti spazi in stile museo. Infine il quinto livello, cioè il tetto-giardino riservato ai soci paganti, perché anche l’ecologia costa, con piscina a picco sul panorama, spa, cocktail bar. Zona che Oscar Farinetti, citando De Masi, definisce in modo immaginifico dell’«ozio creativo» spiegando i 4 automi interattivi con le sembianze di Pericle, Socrate, Platone, Aristotele che invitano chi arriverà a scrivere pensieri: «Una moderna Acropoli di arricchimento e conoscenza».

Ma questa è filosofia per impacchettare. La realtà dice che Green Pea è un format ambizioso, una grande scommessa, molto a sbalzo. Per tutti, tranne per le 200 persone che grazie al Pisello Verde hanno trovato un nuovo posto di lavoro, che resta la vera e più importante forma di sostenibilità di oggi.

Oscar Farinetti, partiamo dal nome: perché Pisello?

«Perché è sferico, come la terra. E verde, come la terra dovrebbe tornare a essere. Non c’è un nome migliore di Green Pea. Quando progetto, penso sempre a una forma: sono matto, ma sono fatto così».

Il Covid sta arricchendo solo Amazon e le vendite online. Green Pea invece punta sul commercio in presenza: non è una scommessa folle in questo momento?

«Certo che lo è. Ma io nel 1968 combattevo l’imperialismo delle multinazionali, poi ho compreso che invece vanno contaminate in positivo. Oggi sono contro l’imperialismo delle aziende online, perché la loro è concorrenza sleale. Non pagano la maggior parte delle tasse, specie quella sull’occupazione del suolo pubblico mentre occupano l’etere che è un suolo ancora più pubblico perché è quello di tutti noi. E la gente è obbligata a comprare da loro perché è chiusa in casa».

È una partita persa allora?

«No, sono figlio di un comandante partigiano e vorrei fare il partigiano creando luoghi dove la gente venga, tocchi quello che acquista, si faccia consigliare da persone competenti a voce. È tutta un’altra cosa.

Fico a Bologna era una grande idea, probabilmente però posizionata male. Perchè Green Pea a Torino dovrebbe funzionale meglio?

«Perché è una città creativa, innovativa, sottovalutata. Invece ha inventato l’automobile, la televisione, la radio, il cinema, la moda con la prima sfilata nel 1911 e la prima donna con i pantaloni, la telefonia. Green Pea è una cosa nuova, quindi Torino è una sede perfetta».

Perché sostiene che il marketing l’ha inventato la gallina?

«Lo dissi la prima volta al Lincoln Center a New York davanti a 8.000 manager di grandi aziende: la gallina depone l’uovo, dice coccodè, e il contadino corre e lo raccoglie fresco. Anche il tacchino fa l’uovo ma è muto, e nessuno se ne accorge».

Lei resta molto ottimista, nonostante tutto: cosa c’è ancora da fare e da inventare?

«Tantissimo. Cambiare il modo di agire e di consumare su questa terra, prima di tutto. Il pessimismo dovrebbe diventare il nuovo vizio capitale».

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