mercoledì 18 settembre 2013
Il governo studia interventi sugli assegni retributivi sopra i 65mila euro. Non si tratterebbero in ogni caso di ricavi annui, ma di riduzione della spesa previdenziale destinati a diminuire man mano che, per ragioni anagrafiche, gli assegni più ricchi diminuiscono. (Giuseppe Pennisi)
COMMENTA E CONDIVIDI
Continuano nelle stanze ministeriali i lavori sull’altra mini-manovra, quella che riguarda le pensioni. La riforma previdenziale allo studio del governo ha un appiglio costituzionale: gli articoli 36 e 38 della Carta secondo cui il lavoratore ha titolo a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Si sono poi aggiunte le sentenze della Corte Costituzionale che considerano la pensione un «salario differito», tale quindi da assicurare un’esistenza decorosa. Purtroppo, per il modo in cui è stato attuato in Italia, il meccanismo «contributivo» comporta forti disparità per l’ultima generazione di lavoratori rispetto al meccanismo «retributivo». La situazione si aggrava ulteriormente per tutti coloro che avranno occupazioni frammentate. D’altro canto, riforme in materia previdenziale innescano forti tensioni in tutti gli «aventi diritto», pensionati già in quiescenza e fasce di età prossime ad andarci. È pertanto materia da trattare con i piedi di piombo.Anche se l’obiettivo è la «giustizia sociale»  e non «fare cassa», è comunque opportuno chiedersi quello che potrebbe portare all’erario – in una fase di ristrettezze di finanza pubblica – una «manovra» finalizzata a dare a ciascuno una pensione commisurata ai contributi effettivamente versati e appropriatamente rivalutati. La somma così «risparmiata» potrebbe essere utilizzata per i giovani o per migliorare l’assegno sociale agli «incapienti» (coloro al gradino più basso della scala dei redditi). Occorre ovviamente avere un’asticella poiché, anche ammesso che si possano fare i calcoli (molti ne dubitano), sarebbe inutile effettuarli per coloro che hanno pensioni comunque basse o medio basse. In sintesi, se ci si rivolgesse ai cosiddetti «pensionati d’oro» si ricaverebbe ben poco: 3-400 milioni di euro. Se invece, come pare si stia facendo, l’asticella venisse posta a 65.000 euro lordi (di reddito da pensione) l’anno, si potrebbe arrivare a 2 miliardi (ma si moltiplicherebbero i ricorsi). Non si tratterebbero in ogni caso di ricavi annui, ma di riduzione della spesa previdenziale destinati a diminuire man mano che, per ragioni anagrafiche, i pensionati (d’oro, d’argento o di piombo) diminuiscono. Di fronte a questi numeri, ci si deve davvero chiedere se il gioco vale la candela in termini di travaglio politico parlamentare che innescherebbe.Dato che una trentina di Paesi sono transitati da sistemi previdenziali retributivi’ a sistemi contributivi, perché questo problema è più grave in Italia che altrove? Nel nostro Paese le disparità sono state rese più acute  per due ragioni: avere previsto un regime transitorio molto lungo e avere aumentato con la «riforma Amato» del 1993 da 15 a 20 anni di versamenti il requisito minimo per avere titolo a pensione (oggi chi lavora e versa per 19 anni 11 mesi e 25 giorni finanzia le pensioni altrui, se non totalizza almeno cinque anni di gestione separata con il resto). È impossibile tornare indietro in termini di periodo di transizione. Ma si può raddrizzare il requisito di anni di versamento (portandoli a 10-15, come negli altri maggiori Paesi sviluppati) e attendere che i pensionati d’oro progressivamente diminuiscano.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: